Alla Rai s'inaugura con la Terza
«La natura è un tempio nel quale viventi colonne lasciano talvolta sfuggire confuse parole […] Con echi lunghi che di lontano si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e la luce, i profumi, i colori e i suoni si rispondono». Baudelaire pubblicò Correspondances assieme agli altri Fleurs du mal nel 1857; ma sono parole che suonano fortemente anticipatrici, quasi profetiche del sentimento panico che informa la Terza Sinfonia di Gustav Mahler, in cui l'autore, servendosi di tutti i mezzi a sua disposizione, voce umana compresa, descrive una cosmogonia musicale salendo i gradini della perfezione dell'essere lungo i sei movimenti che la compongono. Il risveglio della natura e l'irrompere del vitalismo generatore, contrapposto alla spinta mortifera che tutto equilibra, è il nucleo del primo tempo, un gigantesco pannello di oltre mezz'ora che costituisce da solo la prima parte della sinfonia e che occupò Mahler per tutta l 'estate del 1896 a Steinbach sulle rive dell'Attersee, dove in quegli anni si riposava dalle fatiche di direttore d'orchestra dell'opera di Amburgo; segue un tempo dedicato ai fiori – il primo ad essere composto, al principio dell'estate del 1895 – e uno agli animali del bosco, che riprende un Lied precedente, Ablösung im Sommer (Il cambio della guardia in estate). Per descrivere l'uomo, nel quarto movimento, il contralto intona O Mensch!, una lirica dall' Also sprach Zarathustra di Nietzsche. Oltre l'uomo sono gli angeli a parlare: e allora, un coro di voci bianche imita onomatopeicamente il Bimm! Bamm! delle campane (peraltro richieste in orchestra), mentre il contralto, impersonando l'anima di San Pietro peccatore, dialoga col coro femminile: è la versione musicale dell'undicesimo Lied del Knaben Wunderhorn, la raccolta di testi popolari che von Arnim e Brentano pubblicarono nel 1805-08. E quando nemmeno più la voce umana è in grado di esprimere l'indicibile, chiude la sinfonia un Adagio che si staglia a inarrivabili altezze, pur riprendendo spunti del primo movimento in un tentativo di forma ciclica.
Alla RAI di Torino, la Terza di Mahler mancava da ventisei anni: l'ultima volta venne eseguita presso l'auditorium «Giovanni Agnelli» del Lingotto il 25/05/1999 sotto la direzione di Giuseppe Sinopoli (stando sempre a Torino, più “recentemente” è stata diretta da Nicola Luisotti al Teatro Regio: 22/01/2015): e se l'attuale sede dell'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN), l'auditorium «Arturo Toscanini», ha potuto fregiarsi già diverse volte dell'esecuzione dell'altro gigante sinfonico mahleriano, la Seconda (nel 2006, dopo la ristrutturazione della sala, poi nel 2014 per i vent'anni dell'Orchestra e ancora nel 2022 alla ripresa dell'attività «dopo l'oscuro nembo» del COVID), i vasti assunti della Terza risuonano qui per la prima volta, forti di centosessantaquattro musicisti, tra orchestrali, coro e solista, tutti in ottima forma, che hanno contribuito, diciamolo subito, a inaugurare la stagione della Rai nel migliore dei modi.
La data è quella di giovedì 9 ottobre 2025 – auguri a Saint-Saëns per il suo centonovantesimo compleanno e forse anche a Verdi, che nelle lettere era in dubbio fra il 9 e il 10; e complimenti a Krasznahorkai per il suo Nobel! –; la bacchetta è quella di Andrés Orozco-Estrada: al direttore principale il compito di traghettare la “sua” orchestra dal risveglio della natura sino all'ineffabile. Un compito che gli riesce particolarmente bene (cosa non scontata, sia per la complessità della partitura, sia per alcune prove direttoriali che in passato non hanno del tutto convinto) e che ha dato modo di apprezzare sotto una luce parzialmente nuova questa sinfonia, che ad ogni ascolto – ma è caratteristica di molti capolavori, se non di tutti – rivela nuovi e inattesi particolari. La cifra di fondo è quella della misura e dell'eleganza: bandito il Mahler grezzo, rumoroso, caotico, quel Mahler accusato di ingigantire l'organico per coprire una supposta povertà di idee – si sa che chi non ha nulla da dire, il suo nulla lo grida – e che, se non ben diretto, se non tenuto a freno da un polso fermo, fa esattamente quell'effetto. I numerosi passaggi cameristici, ove la sonorità si assottiglia, impreziosendosi di timbri orchestrali inusitati, sono quelli in cui maggiormente si coglie la cura del dettaglio di questa esecuzione: è ciò che più spicca ad esempio nel quarto movimento, dall'orchestrazione così rarefatta, così come nei raccordi tra aree espressive differenti del primo. Non da meno sono gli insiemi, pieni, turgidi ma non fragorosi, in una sala come quella del «Toscanini» dove gli scoppi orchestrali di una Sesta o di una Seconda, più volte uditi, tendono a saturare il timpano spesso oltre il buon gusto. Qui invece no. Cura del dettaglio, quindi, e pieno controllo degli insiemi, cui si aggiunge un'attenta concertazione che riesce a bilanciare i volumi sonori e a mettere in luce la trama, se non proprio contrappuntistica della partitura – caratteristica delle Sinfonie successive –, quanto mento “multistrato”, in una grande trasparenza di sezioni: ciò in particolare, ma non solo, nella prima parte del Langsam conclusivo, tutto scritto ad archi divisi, che lo apparenta da un lato al Preludio del Lohengrin, dall'altra al mirifico Ruhevoll della Quarta, con velati prodromi del futuro Adagietto della Quinta. Fluidità ed equilibrio caratterizzano il Kräftig d'apertura, forte, vigoroso ma non corrivo, in cui colpiscono la varietà di atteggiamenti che seguono da presso i sussulti della musica: interessante a tal proposito la spinta propulsiva che accelera, da manuale, la sezione conclusiva dello sviluppo, poco prima della ripresa annunciata dal solo di rullante: un'accelerazione che avanza ”naturale”, grado a grado, come le rapide di un fiume, non come imposizione ma come necessità espressiva; lo stesso dicasi nel trapasso delle varie sezioni del Tempo di Menuetto seguente, in cui le oscillazioni cinetiche tra parti più animate e parti più calme sono la conseguenza, e non la premessa; eppure, nonostante questi trapassi così naturali, in mezzo a torsioni di danza avvertibili e ben sbalzate, il movimento non perde di chiarezza e se ne enuclea facilmente la struttura strofica. La danza cede il passo alla caricatura e al grottesco – ma sempre nei limiti del buon senso – nel Comodo (Scherzando) seguente, dove le movenze degli animali, se vogliamo infondere il significato del titolo mahleriano originale, poi espunto in fase esecutiva come tutto il programma della sinfonia, diventano progressivamente da graziose a goffe, fino alla ridda finale. Nel mezzo, i due interventi del Posthorn, della cornetta da postiglione, ormai irreperibile e sostituita in genere o dal Flügelhorn (flicorno soprano) o come qui dalla tromba fuori scena (del bravissimo Roberto Rossi), contrastano con una grazia amabilissima, tra la ninna-nanna e il Ländler, e con una leggerezza davvero apprezzata, dando l'idea di distanza, di spazialità – quegli «interminati spazi» che con altra tecnica Mahler evocherà nella Sesta e nella Settima coi campanacci da mucca. E dopo tanta etereità, come emerge intenso il richiamo di corni e tromboni, quasi un bramito che richiama la spinta mortifera del primo movimento!
Anke Vondung si alza in mezzo ai violoncelli, dal cui sottofondo ombroso si stacca: O Mensch! Gib Acht ! ammonisce con voce vellutata e avvolgente, calda il giusto per risaltare netta e per amalgamarsi al tono sacrale del pezzo: prestazione più che buona, con bella intenzione del testo. A seguire, il Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Torino ha modo di esibirsi nel Bimm! Bamm!, con esiti convincenti di sonorità tersa e compatta, sotto la guida di Claudio Fenoglio. Al solito di notevole valore il contributo del Coro «Ruggero Maghini», diretto da Claudio Chiavazza, qui limitato alle sole sezioni femminili.
«Questa impareggiabile composizione trascina irresistibilmente l'ascoltatore […] nel regno spirituale dell'Infinito»: se Hoffmann, in Gli elisir del diavolo, non avesse dedicato queste parole alla Quinta di Beethoven, ci sarebbe stato da giurare che fossero rivolte al Finale della Terza di Mahler. Ogni parola è superflua, d'altronde. «Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che l'parlar mostra» e «Col viso ritornai per tutte quante / le sette spere, e vidi questo globo / tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante» si alternano nella mente, mentre l'esecuzione procede verso la fine. Da segnalare, fra le altre meraviglie, la lama lancinante di luce che i corni aprono in mezzo agli archi, richiamando ancora una volta l'inizio, i catastrofici crolli delle percussioni poco prima della conclusione e l'impasto dolcissimo di flauti e clarinetti sul tappeto di archi, poco prima che l'ultima ascesa concluda, su precisissime scansioni dei due timpanisti all'unisono, l'intera sinfonia.
Si è accennato qua e là alla qualità esecutiva e interpretativa di alcuni soli. Si compartiscano il merito col primo violino di spalla di Roberto Ranfaldi, con l'oboe di Nicola Patrussi e col corno inglese di Nicola Scialdone (glissandi wie ein Naturlaut del quarto movimento, particolarmente lubrichi), col trombone di Diego Di Mario (soli del primo movimento) e con tutta la sezione dei corni, le cui lievi diacronie sotto il testo di Nietzsche – attacchi in pianissimo e molto scoperti, davvero infidi – non scalfiscono l'alto risultato complessivo, così come risultano una delizia per l'orecchio i fiati sempre molto ben amalgamati e archi di grande espressività. «E fino all'accordo finale (e forse ancora per alcuni istanti dopo di esso), [l'ascoltatore] non potrà uscire dal meraviglioso mondo degli spiriti, ove dolore e gioia tradotti in suoni l'avevano travolto» (ancora Hoffmann).
Christian Speranza
20/10/2025
|