RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Vediamoci chiaro

Il ciaikovskismo è simile al puccinismo, Caikovskij – come Puccini – è uno di quei musicisti così equivocati sul piano interpretativo da aver trovato nelle infedeltà degli esecutori le più immediate ragioni della sua popolarità. Si tratti dell'Onegin come della Patetica, il prototipo di un Caikovskij languido, zuccheroso e decadente è duro a morire, al pari di quello d'un Puccini minimalista, lacrimevole e deamicisiano: e se gli interpreti più avvertiti, già dai tempi di Toscanini e De Sabata, hanno aperto più d'una finestra sull'asciuttezza e la crudeltà del mondo pucciniano (ma pure sul buonismo di De Amicis ci sarebbe molto da discutere…), Caikovskij – almeno in Italia – non è ancora uscito dalle maglie dei suoi luoghi comuni psicologico-stilistici. Tuttavia un'opera come Iolanta, pressoché ineseguita da noi, trova ancora vergine il pubblico italiano; e lo spettacolo del Maggio Fiorentino (una coproduzione tra Varsavia e New York), con una lettura musicale e una regia lontane da fazzoletti inzuppati e derive languorose, ha contribuito a svelare il retrogusto da favola “nera” di questo lungo atto unico con cui Caikovskij si congedò dalle scene.

Al di là del finale edificante e trionfalistico, all'insegna di una religiosità estetizzante, il sottotesto di Iolanta tende a turbare più che a rassicurare: l'inconsapevole cecità della protagonista (nata cieca senza sapere di esserlo, perché nessuno le ha fatto sapere che a questo mondo esiste il dono della vista) si fa metafora di altre assenze – l'amore sconosciuto, la sessualità negata – non meno devastanti; l'occultamento della “diversità” (il cieco è comunque un diverso) adombra la stessa condizione di Caikovskij, che tentava di nascondere la propria natura omosessuale; e la sconfitta della malattia (Iolanta riesce a conquistare la vista con la forza della volontà e la scoperta dell'amore) è un happy end più apparente che sostanziale, perché aprire gli occhi significa acquistare una cognizione del dolore che il buio della cecità, prima, anestetizzava.

Mariusz Trelinski, cui si deve una delle più affascinanti regie dell'Onegin di questi ultimi anni, gioca la carta del teatro povero, ma non minimalista, e di una stilizzazione – al di là dell'impianto scenico ridotto all'osso – tutt'altro che schematica e semplificatoria. La sua messinscena, secondo la miglior tradizione del teatro polacco, appare metaforica e materica insieme, con elementi fortemente evocativi (il guizzante cerbiatto proiettato durante il preludio poi trasformato in sacrificale trofeo di caccia, gli improvvisi colpi di luce o affondi di buio in rapporto all'evoluzione “psicologica” della cecità) e un'ambientazione all'apparenza moderna, ma in realtà senza tempo. E Stanislav Kochanovsky, dal podio, entra in solida dialettica con lui, offrendo una concertazione sfrondata da bellurie formali, ma sensibilissima a una drammaturgia timbrica: appare ben percepibile la differente pittura orchestrale del giardino di Iolanta quando la protagonista è cieca, sicché le sue rose sono soltanto una messe di odori, e quando recupera la vista, con i fiori che diventano, innanzi tutto, un tripudio di colori. E anche gli equilibri sonori sono sempre congrui, perché l'estroversione fonica della lettura di Kochanovsky sa fare un passo indietro nei grandi primi piani vocali, senza mai coprire i cantanti.

Peccato che l'Orchestra del Maggio Fiorentino, nonostante la rassicurante professionalità di fondo, difetti poi dell'idiomaticità necessaria, sia in termini di mera qualità di suono sia, tanto più, in termini di fraseggio. Questa lodevole ma poco incisiva correttezza, d'altronde, investe pure il palcoscenico: Victoria Yastrebova domina con omogenea campata lirica le difficoltà vocali di Iolanta, ma il transito dalla fanciulla ignara alla donna consapevole resta scandagliato solo in parte, né mostra il carisma necessario a un ruolo che – a ben vedere – è un alter ego femminile di Caikovskij. La tenorilità di Vsevolod Grivnov riesce a farsi apprezzare in certi suadenti “suoni misti” (è il caso del finale della sua grande aria), ma l'emissione appare scompaginata nei momenti di slancio amoroso; e il basso Alexei Tanovitski, nonostante l'autorevolezza della linea, fatica a dominare con pienezza quegli affondi gravi che caratterizzano il padre di Iolanta. Meglio i baritoni: Mikolaj Zalasinski sfoggia la giusta miscela d'impeto e lirismo, mentre Elchin Azizov (il medico arabo che guarirà la protagonista facendola consapevole della propria menomazione) plasma efficacemente un personaggio di sciamano “umanista”. Di dottore, insomma, che preferisce occuparsi del malato, prima che della malattia.

Paolo Patrizi

9/5/2016

La foto del servizio è di Michele Borzoni-Contrasto-MMF.