RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Der Rosenkavalier

e la "masquerade" viennese diventa capolavoro

SALISBURGO. Ohne mich…Ohne mich… canta il barone Ochs di Lerchenau sulle note del valzer stilizzato che, acquattato e prepotente, chiude il II atto di Der Rosenkavalier di Richard Strauss e benché gioiello tra i gioielli di famiglia – in quanto valzer - qui parrebbe addirittura il pezzo più prezioso della sterminata, immortale collezione di casa Strauss.

Senza di me, senza di me ogni giorno è così terribile per te. Con me, con me, nessuna notte sarà troppo lunga per te. Continua a cantarlo, Ochs, con la presupponenza dell'aristocratico di provincia assai poco avvezzo ai modi di città, se si tratta di donne specialmente.

Ma senza questo Rosenkavalier –che va avanti fino al 23 agosto, sul podio il blasonato appassionato Franz Welser-Möst e la regìa sontuosa di Harry Kupfer – probabilmente il Festival di Salisburgo di quest'anno (ultimo dell'era Pereira, da settembre e per i due anni a venire, infatti, gli succede Sven-Erich Bechtolf, già responsabile del settore teatro) perderebbe molto del suo lustro artistico e della sua unicità internazionale. Non sono poche le voci (e nessuna di loro meno che autorevole) pronte a sostenere che l'edizione del 2014 – i protagonisti sono magnifici, praticamente perfetti, ora istrioni ora “cantattori” sensibilissimi: in testa Krassimira Stoyanova (Feldmarescialla) e Günther Groissböck (Ochs) e con loro Sophie Koch (Octavian) e Mojca Erdmann (Sophie), Adrian Eröd (Faninal), Silvana Dussmann (Marianne), Rudolf Schasching (Valzacchi) Wiebke Lehmkuhl (Annina) – sia la migliore degli ultimi quarant'anni al Festival. Dal canto nostro (e certo con una memoria meno estesa per motivi anagrafici) la diciamo sicuramente migliore dell'ultima del 2004 (dieci anni prima di questa che celebra i 150 anni della nascita del compositore, terza anima fondatrice del Festival insieme con Max Reinhardt e Hugo Von Hoffmansthal) e fors'anche di quelle che occuparono gli Anni Sessanta, quando l'opera andava in scena più di frequente e, in piena era Von Karajan (sul podio, ça va sans dire ), aveva la regìa di Rudolf Hartmann.

In scena (Hans Schavernoch, i costumi, riccamente appropriati, sono di Yan Tax), raffinatezza misurata e smisurata sobrietà formano un tandem dorato almeno quanto lo fu quello composto da Strauss e dal poeta drammatico Von Hoffmansthal, un connubio che ha cambiato la storia del teatro musicale del Novecento e più che mai a partire da Der Rosenkavalier.

Sontuoso in tutte le possibili nuance di grigio con sapidi interventi di nero e bianco - sia tra gli arredi di scena che sull'imponente video design (Thomas Reimer) che riproduce ora facciate del palazzo ora interni ora il parco - il palcoscenico è sofisticato e minimale a un tempo e scopre, di volta in volta, praticabili e girevoli che danno all'azione fluidità e languore, rapidità e gradualità insieme.

I cambi di ambiente avvengono a vista, come una danza: avanza e retrocede la grande porta, una sorta di porta di Brandeburgo, recisamente chiusa al compassato servitore della Feldmarescialla perché conduce alla ricca alcova dove si cela il giovanissimo amante; il lettone invitante di Ochs, pronto a spalmarvisi dopo essere stato involontariamente graffiato da Octavian ma ancor fuori dal duello a cui il giovanotto, già (rap)preso d'amore per Sophie, l'aveva sfidato; l'ingresso dell'automobile, sorta di Bugatti, da cui la Marshallin benedice i due giovani innamorati. Alle loro spalle ma al tempo stesso sembrano irrompere in scena,scorrono i fondali struggenti come i lunghi filari d'alberi spogli o il milieu tremendamente crepuscolare (più Visconti che Wagner, si badi) che recinge la chiusura del I atto con una solitaria, malinconica Marshallin che “vede” già il prossimo, plausibile abbandono da parte dell'amante troppo giovane per lei.

Metti un Faublas e un Pourceaugnac (nel suo cognome c'è già il pourceau, il porco e tanto basta) e, passando opportunamente per il “barocco gesuita viennese” come dettato da Hoffmansthal, avrai Octavian e Ochs. Era tipico del metodo del poeta, infatti, autore del libretto di Rosenkavalier, giustapporre due nomi che in questo caso prese a prestito dalla comédie-ballet di Molière e da Les amours di chevalier de Faublas (1787-90), il romanzo di Louvret de Couvray che dava già i connotati dell'ingénu libertin (Faublas, appunto) diventato poi il giovane avventuriero Octavian che salta da un letto all'altro di amanti sposate.

La Marshallin avrebbe dovuto essere, secondo Hoffmansthal, educata in convento, devota, sì, ma al tempo stesso capace di grandi aperture, in pieno tono con la noblesse austriaca. Ma la sua silhouette caratteriale ricordava in fondo anche l'imperatrice Maria Teresa (e così si chiama, infatti, la Feldmarescialla ) a cui la data dell'ambientazione, il 1740, fa chiaro riferimento politico. Fu vera equilibrista– la sovrana come la Marshallin – tra distanze e vicinanze, natura ed arte, regola e trasgressione. E capacissima, incantevole, ubriacante è la Marshallin della Stoyanova, soprano bulgaro di rara presenza scenica e di svettante vocalità che la mette al pari delle grandi del suo paese che tiene testa quanto a talenti di canto lirico. Per lei, battimani e “batti piedi” a scena aperta come accade per l'Ochs giustamente facinoroso e altezzosamente grezzo di Groissböck che contribuisce non poco a stemperare il plot con note tragicomiche (si spoglia voluttuosamente che neanche un'avvenente strip teaser per raggiungere solo le coltri e da solo, dopo aver frignato per un ferimento assai trascurabile) che in realtà attraversano le tre ore e cocci di partitura e parola. Non ultime, le mossette di Octavian - a metà tra Charlot e Pantera Rosa - per difendersi dalle avance del barone che lo crede una fanciulla, tale Mariandel, un travestimento inventato e imposto dalla Marshallin, che, sposata e inaspettatamente sorpresa da Ochs in visita, teme d'essere scoperta in flagrante adulterio.

Vero maestro d'orchestrazione, Richard Strauss – e non a caso invitato a revisionare niente di meno che il Trattato di strumentazione di Berlioz - anche nei suoi valzer viennesi stilizzati che tuttavia si rifrangono in molte altre prospettive di concertazione. E gli rende piena giustizia il “braccio” del maestro Welser-Möst, vibrante e lirico, imperioso e a passo di volpe.

Incanto tra gli incanti, a un passo dal finale, il corposo momento in cui le tre “cantattrici” (una en travesti) Stoyanova, Koch, Erdmann si dichiarano eterna complicità emotiva ed esistenziale (la Marshallin “perdona” Octavian che ama, riamato, Sophie, non più promessa sposa del barone) in un'alchimia vocale decisamente ubriacante, dal pentagramma alla scena.

E sembra quasi la stessa osmosi – imprevista, lavorata, conquistata - che doveva finalmente unire, dopo non poche incomprensioni e animate conversazioni, Strauss e Hoffmansthal se proprio quest'ultimo annotava, in una lettera del 1911 alla contessa Degenfeld-Schonburg: “Non vedremo mai di nuovo una cosa così, questa perfetta consonanza tra poesia, musica e rappresentazione, così delicata e quieta e così bella che ci siamo ritrovati tutti e due seduti al buio a piangere. Capita molto di rado nella vita. Ricordo qualcosa di simile davanti alla bellezza del paesaggio del Golfo di Ithea, in Grecia”.

Pare che Strauss, invece, provasse la stessa cosa tutte le volte che ascoltava Enrico Caruso. Italiani über Alles. Almeno tra le Muse.

Carmelita Celi

9/8/2014