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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Milano

Finalmente qualcosa degno della Scala

Per fortuna qualcuno ha pensato a Die tote Stadt (La città morta) di Korngold che non era mai stata rappresentata alla Scala. Per fortuna sono stati scelti anche degli interpreti adatti e un allestimento interessante, anche un bravo maestro. Il risultato è stato un successo forse un po' inatteso ma che la sera dell'ultima recita vedeva un teatro pieno, interessato e plaudente: basti pensare a titoli più noti, ‘popolari', e `orecchiabili', anche di recentissima data, e a reazioni svogliate, annoiate, poco partecipi e con vistosi buchi in tutti gli ordini per capire che forse il pubblico sarà un po' scemo – perché così lo hanno ridotto anni e anni di scemenze – ma non è mica stupido.

Korngold desta orrore in chi vede già dappertutto il compositore di colonne sonore di film di Hollywood, e ci sono gli interludi dove si percepiscono in effetti tanti ‘anticipi', come si sentono anche Strauss e magari Puccini, come se questo fosse un lavoro ‘indegno' e come se l'autore (o gli autori, penso a Weill) avessero avuto una possibilità reale di scelta. L'opera è breve, tonale, con momenti di acceso melodismo, ha un soggetto dove, in un sogno, si spara a zero contro tanti tabù e pregiudizi, e c'è l'onnipresenza della donna, morta o viva, che mette in crisi il ‘maschio' che dopo l'esasperazione finale della gelosia, la vergogna, l'ipocrisia – con omicidio finale in quello che si rivela ‘solo' un incubo e non un fatto reale – ammette che forse sì è l'ora di fare un viaggio e lasciarsi dietro ossessioni e feticismi vari.

Bello il nuovo allestimento di Graham Vick con tutti quei mazzi di fiori, con gli artisti e gli snob della società in stato di alienazione parossistica mentre i bravi borghesi continuano a sostenere i valori tradizionali – le allusioni o scene religiose la dicono lunga. Bene, o molto bene, il maestro Alan Gilbert, parecchio applaudito, è una bacchetta sicura e precisa che riesce a non coprire mai i cantanti pure con una prestazione a dir poco rigogliosa dell'orchestra del Teatro. Benissimo, ed è cosa quasi ovvia, il magnifico coro istruito da Bruno Casoni. Molto bene i comprimari, dove si fanno onore anche i solisti dell'Accademia del Teatro, con anche la partecipazione del Coro di Voci Bianche della stessa Accademia.

I principali sono quattro, ma i due ruoli protagonisti sono massacranti per difficoltà vocali e presenza sul palcoscenico. Klaus Florian Vogt è da tempo un rinomato Paul e qui ha offerto una delle migliori prestazioni ch'io ricordi di lui in assoluto. Non solo la tenuta vocale è stata ottima ma anche l'attore dimostrava una capacità d'immedesimazione che non era stata mai così forte. Asmik Gregorian ha confermato quanto di lei si è detto dal momento della sua folgorante Salome straussiana al Festival di Salisburgo – magari sarà per questo motivo che l'anno prossimo non ci sarà lei a cantare questo ruolo nella sala del Piermarini: è una cantante completa, di bella voce, ampia, e un'attrice che investe corpo e anima nei doppi panni di Marie/Mariette – la donna morta ideale, o idealizzata, e l'attrice viva, una ‘Lulu' in miniatura. Molto bene anche Markus Werba come l'amico di Paul, Frank, ma anche come Fritz, il Pierrot – ma se la Grigorian rende affascinante il Lied di Marietta, il bravo baritono ha una voce un po'chiara per il bellissimo Lied di Pierrot. Non proprio eccellente il mezzosoprano romeno Cristina Damian come Brigitta, la governante di Paul, una voce ingolata che non corre molto, ma buona attrice. Speriamo in un rapido ritorno di quest'importante titolo del Novecento.

Jorge Binaghi

1/7/2019

La foto del servizio è di Marco Brescia & Rudy Amisano.