RECENSIONI
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Lucia di Lammermoor alla Fenice di Venezia

 

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Al Teatro La Fenice una nuova produzione di Lucia di Lammermoor, opera considerata il capolavoro di Gaetano Donizetti, merito raggiunto anche per l'immensa popolarità che indubbiamente le conferisce il titolo di grande opera della prima metà del XIX secolo, mai uscita dal repertorio. Dramma tragico in due parti, fu messo in versi dal quel sommo poeta che fu Salvatore Cammarano, il quale trasse il soggetto dal romanzo The Bride of Lammermoor di Sir Walter Scott, scrittore scozzese che può essere considerato il padre del moderno romanzo storico con predominante citazione al territorio locale. Infatti, anche La sposa di Lammermoor si rifà a episodi in parte avvenuti e in parte tramandati dalla leggenda popolare. Sullo sfondo il predominante paesaggio scozzese, con i suoi castelli, la brughiera, spiagge e boschi.

Tali peculiari descrizioni di Scott, riportate anche da Cammarano e musicate da Donizetti, non sono state trasportate nello spettacolo veneziano creato da Francesco Micheli, il quale sposta la vicenda ai primi anni del secolo scorso. L'intera vicenda è sviluppata attraverso un flashback nel quale Enrico, fratello di Lucia, rivive la tragedia famigliare e il crollo della sua fortuna nobiliare. Elemento portante della drammaturgia è la perdita della “roba” (citazione del regista da Giovanni Verga), tutto il patrimonio di famiglia è perduto con la follia della protagonista che ammazza lo sposo impostole dal fratello per salvare il casato. Sin dall'inizio troviamo Enrico sempre in scena, che guarda sconsolato i ritratti degli avi e resta ammutolito di fronte a una catasta di mobili ormai distrutti dal crollo sociale e politico della famiglia. Partendo da questa suggestione, Micheli riavvolge il nastro all'indietro e tutto ritorna al suo posto per iniziare il drammatico racconto. Idea suggestiva e pertinente ma non sempre funzionale. Troppa luce sul personaggio di Enrico, il concetto è molto espressionista, meno caratterizzazione sugli altri. Non mancano scene rilevanti, come la pazzia di Lucia giocata su una sorta di danza sul tavolo del banchetto attraverso dei bicchieri, riferimento credo alla glassarmonica utilizzata in questa edizione, un solo bicchiere è tinto di rosso. L'ambiente via via resterà sgombro come uno svuotarsi dell'anima. Meno riusciti i movimenti delle masse tra cui un incomprensibile balletto del coro. Inoltre poco credibili i petali che scendono al primo atto durante il duetto di Lucia ed Edgardo, e la neve (o le ceneri?) durante la scena finale del tenore. Azzeccata la scelta di far stendere a terra il coro durante “Tu che a Dio”, un cimitero senza lapidi, ma ridicolo poi che questi si animano nel finale. Scena pertinente ma non emozionante di Nicolas Bovey, costumi opinabili per stile di Alessio Rosati, luci bellissime di Fabio Barettin.

Sul podio c'era Riccardo Frizza, il quale regge con mano esperta e sicura le redini dello spettacolo in una lettura pertinente, molto ricercata nello stile e di forte tinta drammatica. Peccato i piccoli tagli come la soppressione di alcuni daccapo e il volume talvolta eccessivo, ma pur sempre una prova molto positiva cui va aggiunto l'encomio per l'inserimento della glassarmonica, anche se non sempre perfetta nell'esecuzione. Brillante la prova dell'orchestra.

Nadine Sierra, la protagonista, riceve un personale trionfo con tanto di esagerata standing ovation finale. È stata una prova positiva ma del tutto ordinaria, nella quale non si possono non rilevare parecchi difetti d'intonazione nell'aria d'entrata, cui vanno aggiunte cadenze poco credibili e un sostenuto utilizzo del registro acuto non sempre preciso che andava a discapito della drammaturgia. Tuttavia, la sua performance è stata positiva ma da mettere a fuoco in seguito. Francesco Demuro, Edgardo, è palesemente spaesato in questo ruolo, nel quale non trova l'efficace utilizzo di un fraseggio pertinente, un colore credibile, la tessitura è al limite delle sue potenzialità e marca limiti tecnici. Più riuscito l'Enrico di Markus Werba, che non trova difficoltà a rendere il crudele fratello con precisa musicalità, anche se per mio gusto avrei preferito più nobiltà d'accento e interpretazione.

Limitato il Raimondo di Simon Lim, cantante sovente ingolato e poco morbido, molto bravo invece Francesco Marsiglia, Arturo, cantante di apprezzabile vocalità ed eleganza nel fraseggio. Poco efficace il Normanno di Marcello Nardis, cantato con tratti vocali spinti, più corretta Angela Nicoli nel ruolo di Alisa.

Bravissimo il coro istruito da Claudio Marino Moretti.

Al termine successo pieno per tutta la compagnia, con punte particolari di ovazioni per la protagonista come suddetto. All'uscita del regista non sono mancati applausi ma uno spettatore, immagino di galleria, ha contestato la produzione utilizzando un fischietto. Non tolgo il diritto di esprimere opinioni ma l'utilizzo di tale strumento pone molte perplessità.

Lukas Franceschini

2/5/2017

Le foto del servizio sono di Michele Crosera-Teatro la Fenice.