RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Legnano a Firenze

Riassumere la personalità artistica di Giuseppe Verdi sotto la generica voce di operista è riduttivo. In cinquantaquattro anni di attività, dall'Oberto, conte di San Bonifacio (1839) al Falstaff (1893), vi è un'evoluzione pressoché costante delle forme e della struttura dell'opera, che passa da modelli prettamente donizettiani-belliniani a forme più aperte, avvicinandosi al teatro senza interruzioni alla Wagner e offrendo un trampolino di lancio ideale per tutta la generazione di operisti successivi, Puccini in testa. E, in questa evoluzione, l'emancipazione dai modelli precedenti e l'affermarsi di uno stile più personale nella drammaturgia stessa dell'opera avviene nel passaggio dagli “anni di galera” al periodo di mezzo, con la composizione della “trilogia popolare”.

Spartiacque tra gli “anni di galera” e il periodo di mezzo è La battaglia di Legnano, del 1849, collocata tra Il corsaro e Luisa Miller. In quest'opera, sulla quale pesa l'ingiusta condanna di pièce d'occasion nata a ridosso della Seconda Repubblica Romana (9 febbraio 1849), è evidente lo svincolamento dalle forme chiuse di derivazione primo-ottocentesca, pur costruita com'è su di esse; ma il carteggio tra Verdi e Salvadore Cammarano mostra un embrionale libretto pieno di arie, duetti e terzetti, prontamente sfrondato dal compositore in funzione di una più agevole articolazione delle scene. Forme chiuse, sì, ma con uno sguardo al loro superamento. Si aggiunga poi un omaggio al grand-opéra francese, che il soggiorno parigino aveva reso famigliare a Verdi, in cui una trama corale, di un popolo, fa da sfondo alla vicenda privata, di solito amorosa, dei protagonisti (vedi Nabucco e I lombardi alla prima crociata Jérusalem), un libretto ad hoc su uno scontro decisivo per le sorti del suolo patrio, proiettata in un Medioevo in parte mitizzato, con tanto di giuramenti e inni all'Italia, e si ottiene un lavoro perfettamente in linea con i desiderata dei gusti e delle aspirazioni patriottiche del popolo italiano di quel tempo. L'accoglienza del pubblico, tuttavia, fu inizialmente trionfale, tanto che il quarto atto fu ripetuto integralmente alla prima assoluta, al Teatro Argentina di Roma il 27 gennaio 1849 (curioso come il 27 gennaio ricorrerà anni dopo nella vita di Verdi: sarà il giorno della sua morte, nel 1901), ma non durò. Decaduta la Repubblica Romana, nel luglio dello stesso 1849, sfumate le più ardenti aspirazioni patriottiche, l'opera perse il suo favore, e a nulla valsero i tentativi di Verdi di rilanciarla negli anni seguenti anche con titoli diversi.

Il germe letterario della Battaglia di Legnano è il dramma di Joseph Méry La bataille de Toulouse, di cui Cammarano conserva soltanto un'esile intelaiatura drammaturgica, ma che soprattutto retrodata, dalla battaglia di Tolosa, di epoca napoleonica, a quella di Legnano, al 29 maggio 1176, legando idealmente in questo modo la sconfitta di Federico Barbarossa alle battaglie risorgimentali ancora fresche nella mente del popolo italiano, occasione di riscatto dalle oppressioni simbolicamente già citata da Mameli appena due anni prima, nel 1847, nel Canto degli Italiani: «Dall'Alpi a Sicilia / Dovunque è Legnano».

La lodevole iniziativa del Maggio Musicale Fiorentino di rispolverare la quattordicesima opera di Verdi permette di apprezzare, affrancata ormai dalle vicende temporali dell'Italia (ché l'arte, nella sua dimensione atemporale ed eterna, travalica la Storia e poco se ne cura), tutta la genialità di un compositore al quale le convenzioni del teatro italiano iniziavano ad andar strette. Con riferimento alla rappresentazione del 27/05/2018, la direzione dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, affidata a Renato Palumbo, frequentatore assiduo del repertorio verdiano, è serrata, tesa, a tratti tempestosa, e raramente si lascia andare a languori melensi che non sembrano far parte del suo linguaggio, né di quello del Verdi della Battaglia, che si mantiene piuttosto sull'eroico, sull'infuocato. L'orchestra risponde bene al suo dettato, sebbene nell'insieme, sopratutto in concomitanza degli interventi del Coro del Maggio Musicale Fiorentino, istruito da Lorenzo Fratini, si abbia una quasi totale prevaricazione di quella su questo, forse per un difetto di concertazione – coro che non pare perfettamente coordinato nella sillabazione e in generale di volume inferiore al richiesto. Sul palco si muovono l'Arrigo del tenore Giuseppe Gipali e la Lida del soprano Vittoria Yeo, voci che ben si affiatano nei pregi come nei difetti: buon legato e buona dizione per entrambi, con un vantaggio della Yeo su tutti i fronti, oltre ad avere dalla sua una gradevolissima grazia di canto; prestanza vocale non eccezionale anche qui per entrambi, ed evidenti sforzati verso l'acuto per Gipali, che, dalla seconda metà, accusa una certa dose di stanchezza, data anche dalla presenza di un solo intervallo fra secondo e terzo atto. Di tutt'altra e migliore fattura il Rolando di Giuseppe Altomare, baritono dal timbro scuro, minaccioso, che si muove sicuro e non perde di volume in nessun registro della sua parte, qualità che si accompagnano a buone doti di recitazione. Doti di recitazione che portano a calarsi nella parte anche il basso Marco Spotti nel ruolo del Barbarossa, ruolo ridotto ma decisivo per l'opera e di grande impatto scenico, sebbene il suo timbro chiaro e la sua emissione ingolata gli remino contro e lo configurino meno incisivo di quanto le sue pur oneste intenzioni lo vorrebbero. Buona la prova per l'Imelda di Giada Frasconi e per il Marcovaldo di Min Kim. Completano il cast Egidio Massimo Naccarato, Primo Console di Milano, Nicolò Ayroldi, Secondo Console di Milano, e Rim Park, Uno Scudiero e Un Araldo.

Convincenti la regia di Marco Tullio Giordana, le scene/luci di Gianni Carluccio e i costumi di Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico. Con relativa economia di mezzi l'impianto scenico riesce a rendere l'austerità del contesto medievale, dove predominano alte mura di mattoni ed elementi architettonici sullo sfondo. Un poco eccessiva, forse, la stilizzazione del balcone sul quale si nasconde Lida prima di esser scoperta da Rolando, ridotta ad un'intelaiatura in metallo, senza tende o altro elemento atto a nasconderla, ma perdonabile, come il suo vestito da sera rosso fuoco, più consono ad una Tosca di ritorno dallo spettacolo che ad una dama medievale. Si tratta tuttavia dell'unica incongruenza in un insieme di costumi e situazioni credibile e ben fatto, ispirantisi ad un favolistico Medioevo, con adeguata differenziazione, lievemente stereotipata, dei “buoni”, gli italiani, senza quasi alcun paramento bellico, e i “cattivi”, i soldati del Barbarossa, con tanto di elmo, cotte di maglia e spadoni a due mani, apparentemente invincibili. Di sicura efficacia, nella scena dei sotterranei della chiesa di Sant'Ambrogio, ove avviene l'investitura di Arrigo a Cavaliere della Morte, il gotico espediente di alcuni scheletri vestiti appesi alle pareti, che ricordano da vicino, per chi l'ha vista, la cripta dei Cappuccini di Palermo.

Christian Speranza

5/6/2018