RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Luci e ombre su Lucia

Furono necessarie meno di sei settimane a Gaetano Donizetti per comporre quella che sarebbe diventata la sua opera più famosa e il paradigma dell'opera romantica pre-verdiana: Lucia di Lammermoor, su libretto di Salvadore Cammarano, tratto da The bride of Lammermoor, romanzo storico di Walter Scott (1829). La trama ricorda quella di Romeo e Giulietta: «due famiglie, nobili del pari», gli Ashton e i Ravenswood, sono rivali per politica e religione (siamo nella Scozia «al declinare del secolo XVI», l'epoca delle lotte tra Tudor e Stuart). Lucia, sorella di Enrico Ashton, e Sir Edgardo Ravenswood si amano, contrastati dal fratello di lei. Ma quando, con un inganno, Lucia è indotta a credere all'infedeltà del suo amante lontano e costretta da Enrico a sposare Lord Arturo Bucklaw, matrimonio che avrebbe risollevato le sorti della casata, impazzisce e pugnala Arturo nella prima notte di nozze, morendo poco dopo a sua volta di crepacuore. Edgardo, che in un primo momento aveva accettato di sfidare a duello Enrico, si trafigge alla notizia della morte della sua amata. Chi avrebbe mai detto che proprio a Donizetti, che prima della Lucia aveva affrontato la pazzia in musica nel 1833 con Il furioso all'isola di San Domingo e Torquato Tasso, sarebbe toccata una simile sorte di declino mentale?

Storicamente, è un passaggio fondamentale. La première della Lucia avvenne al Teatro San Carlo di Napoli il 26/09/1835, appena tre giorni dopo la morte di Bellini: Donizetti si trovava così, di fatto, ad essere il maggior operista italiano in attività dopo Bellini e prima di Verdi.

La ripresa di Lucia di Lammermoor al Teatro Regio di Torino, nel mese di maggio 2016, a cinque anni dalla sua ultima messinscena, si è avvalsa della direzione di Gianandrea Noseda (Direttore Musicale del Teatro stesso), di due cast , come al solito, e di tre primedonne: oltre a Jessica Pratt ed Elena Mosuc, ha calcato le scene solo per la nona ed ultima recita (dulcis in fundo), domenica 22/05/2016, di cui si riferisce, Diana Damrau, con cui il Regio porterà l'opera in tournée a Parigi e ad Essen in forma di concerto a fine mese (http://www.teatroregio.torino.it/stagioni/2015-2016/tourn%C3%A9e-parigi-essen). Qualsiasi divismo a cui può far pensare quest'unica apparizione finale e persino qualsiasi stravaganza registica, di cui si dirà, sono apparsi giustificati di fronte alla sua superba performance (per quanto, a onor del vero, altri giudizi siano stati non così entusiasti – e la recita torinese sarebbe stata la prova generale della tournée, anche a fronte del cachet presumibilmente maggiore rispetto a quello della Pratt e della Mosuc –: brava sì, ma non superlativa; tante teste, tante idee). Soprano di coloratura, dotato di grande estensione (più di cinque ottave), ha dato prova di ottimo controllo vocale e di dinamiche sorprendenti, capaci di passare dal filato pianissimo (e non calante o instabile) a un fortissimo in grado di sovrastare l'orchestra e gli altri cantanti, senza mai diventare stridula o sgraziata, soprattutto nel registro acuto: non solo nella “scena della pazzia”, in cui è stato curato anche l'aspetto della recitazione, convincente nel dipingere una Lucia “allucinata”, preda (prokof'evianamente) di “visioni fuggitive”, ma anche, per esempio, in Regnava nel silenzio, dove il fraseggio evidente ha permesso di calibrare il valore drammaturgico del libretto attraverso l'uso della “parola scenica”, che Donizetti aveva intuito già prima di Verdi, e in Verranno a te sull'aure, con le puntature di rito. Un'artista a tutto tondo, insomma, che unisce una tecnica sbalorditiva e un'interpretazione intelligente a un'autentica gioia di cantare, a giudicare dall'entusiasmo con cui ha accolto, a fine recita, le ovazioni del pubblico.

Piero Pretti (Edgardo) ha un timbro che ricorda quello di Alfredo Kraus: lirico, squillante e agile. Il finale terzo, Tombe degli avi miei e Tu che a Dio spiegasti l'ali, viene reso con accenti accorati e di sincera partecipazione.

Apprezzabile anche la prestazione del baritono Gabriele Viviani (Enrico), voce scura e potente, che fatica un po' negli acuti, ma che risulta valente dall'inizio alla fine. Cruda, funesta smania e La pietade in suo favore, assieme col duetto Enrico-Edgardo dell'atto II (n ° 11) sono stati i passaggi in cui la sua vocalità si è espressa al meglio. Meno incisivo è parso nel duetto con Lucia (atto I), in cui sono sembrate poco naturali anche le movenze sceniche.

Dal basso Nicolas Testé (Raimondo), anch'egli impegnato in quest'unica recita, ci si sarebbe aspettati un impegno maggiore, perché, al momento della sua aria, Ah, cedi, cedi, o più sciagure, ha espresso una notevole verve, che non ha sfoggiato negli altri suoi, pur rari, interventi.

Completano il cast la Alisa di Daniela Valdenassi (mezzosoprano) e il Normanno di Luca Casalin (tenore), che al Teatro Regio ha già ricoperto in passato altri ruoli da comprimario (Spoletta nella Tosca di febbraio 2016, ecc.). Il Coro del Teatro Regio, istruito da Claudio Fenoglio, si è dimostrato come sempre all'altezza della situazione, compatto e versatile nell'interpretare ora gli armigeri di Normanno, ora i parenti di Lucia.

La direzione di Noseda è parsa da subito aggressiva, drammatica, intensa, e tale si è mantenuta per tutto il corso dell'opera; il che, conoscendo il Nostro, da direttore sinfonico, a suo agio con partiture vaste e bellicose, non stupisce: stupisce l'efficacia del connubio tra la sua lettura e la musica donizettiana. L'interludio del temporale, per esempio, è stato reso con una forza già verdiana, spendibile per il Preludio del Macbeth. Buona anche la calibrazione delle dinamiche, solo raramente sovrastanti le voci. Il concertato del finale primo è stato reso con equilibrio, con tutte le voci espresse sullo stesso piano. Nota di pregio, la “scena della pazzia” è stata accompagnata dalla glassarmonica, come previsto nell'originale da Donizetti, tocco di accompagnamento irreale, straniante, non foss'altro per l'impiego raro di questo strumento, alle allucinazioni dell'impazzita Lucia (la difficoltà di reperimento della glassarmonica ha poi indotto Donizetti a scrivere un accompagnamento semplificato per flauto, che si ascolta più di frequente).

Fin qui le “luci” di questa Lucia: le “ombre”? Senz'altro la regia, di Damiano Michieletto (ripresa da Roberto Pizzuto dall'allestimento per l'Opernhaus di Zurigo del 2008), e le scene, di Paolo Fantin. Si immagini un parallelepipedo in vetro e metallo obliquo, una torre di Pisa in forma di palazzo a tre piani abbandonato, con le finestre rotte (simboleggiante, per il regista, la gabbia in cui Enrico imprigiona Lucia), dove gli invitati al matrimonio (il coro) ballano in abito da sera, e da un terrazzino del quale Lucia si lancerà, morendo (ciò che non fece Tosca a febbraio 2016, sempre al Regio di Torino, per cui nella regia di Daniele Abbado si accasciava a terra, fece Lucia tre mesi dopo…). Il tutto in un paesaggio lunare, su sfondo nero, talmente astratto da astrarre tutto, eccezion fatta per tre tavolini con catering per la festa di nozze. Lo spettro dell'ava defunta, che compare accanto alla fontana, trasformata qui, per malefico artifizio, in un secchio di latta (sic!), è un mimo, che, così spiega il regista, diviene man mano personificazione della morte e specchio di Lucia e del suo destino. I costumi di Carla Teti (a dispetto del cognome, non una ninfa, a giudicare dal suo operato) sono un compendio di incoerenza: Raimondo è vestito da cappellano in talare nera e colletto bianco, e a inizio opera benedice i cadaveri di tre soldati stesi a terra: tali soldati, cioè gli armigeri, sfoggiano elmetto di metallo e uniforme della prima guerra mondiale; Normanno ha un trench di pelle nero ed Enrico uno rosso. Lucia si salva con una veste verde scuro e, dopo l'omicidio, una candida camicia da notte (senza nessuna traccia di sangue, neanche sulle mani). E non sono che cenni. Nell'insieme, l'apparato registico-scenico ha fatto l'effetto di gocce di vetriolo su una lingua abituata a caviale e champagne. Citando il McCarthy de La strada, «Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli».

Christian Speranza

28/5/2016

Le foto del servizio sono di Ramella&Giannese-Edoardo Piva.