Harding avvia il ciclo mahleriano a S. Cecilia 
Le linee programmatiche e le traiettorie interpretative della nuova direzione musicale di Daniel Harding emergono con sempre maggiore chiarezza, ora che la stagione dell'Accademia di S. Cecilia giunge al suo culmine, procedendo verso la sua conclusione. L'indagine esistenziale si snoda attraverso opere di rara esecuzione, come la Sinfonia n. 2 del compositore ceco Suk, o sovente ingiustamente neglette come le Scene dal Faust di Goethe di Schumann. La grande tradizione drammatica tedesca troverà incarnazione nel Ring wagneriano del prossimo anno, mentre il ciclo integrale delle sinfonie di Mahler si è appena avviato. Impegni di ampio respiro e di enorme impegno, a dimostrare le smisurate ambizioni del direttore britannico. La prima Sinfonia di Mahler mostra le aspirazioni totalizzanti del compositore, aprendo il sipario su un universo di enorme ricchezza. Nota è l'articolata gestazione dell'opera, nata come poema sinfonico dalle complesse linee programmatiche, sfrondata del secondo movimento denominato Blumine e consegnata, dopo ulteriori revisioni, alla mera espressione sinfonica. Il brano espunto viene presentato nella prima parte del concerto, al quale abbiamo assistito nella giornata di sabato 19 aprile, senza volerlo reintegrare nella struttura dell'opera, per rispettare la volontà di Mahler che non lo giudicava all'altezza, ma per darne comunque esperienza al pubblico in sala. La resa sonora del brano è ammantata di nostalgia, distante come un ricordo che si fatica a riportare alla mente. La Prima Sinfonia nasce già matura, sorta di Bildungsroman dalle tangenze letterarie e dalla inesausta profondità. L'apertura è magnifica, con un mondo che letteralmente si delinea di fronte ai nostri occhi emergendo da nebbie indistinte. La lettura di Harding modella atmosfere di eccezionale nitore, grazie all'apporto di un'orchestra ai suoi massimi livelli e precisa in ogni sezione. Tutto emerge con chiarezza e luminosità abbaglianti. Nel secondo movimento il direttore marca i ritmi da danza popolare, per evidenziare il contrasto fra la materialità del Ländler rurale e il balenare fantasmatico del valzer, reminiscenza di un'epoca giunta al suo tramonto. Nel terzo l'edificio sonoro viene intaccato dai germi della disgregazione; il tessuto sinfonico frana nell'immateriale. Figure fiabesche balenano in un paesaggio a metà fra il fantastico e il grottesco, proiezioni di una lanterna magica che prefigura il cinema di Bergman, il suo brancolare nelle nebbie della fanciullezza e del ricordo. La conclusione si manifesta come il precipitare di una cascata in un orrido profondo, con ruggiti orchestrali e parossismi sonori che atterriscono. La lettura di Harding appare costantemente equilibrata, mai retorica o eccessivamente brutale. Ogni elemento timbrico risalta senza perdersi nel magma orchestrale. Invano cercheremmo nella sua interpretazione vertiginose derive espressioniste, o i futuri lidi della musica novecentesca. La sua visione, pregna di rimpianto, cela aspirazioni oltremondane di classica bellezza.
Nella prima parte della serata protagonista il Concerto per violino di Dvorák, altro lavoro dalla genesi piuttosto tormentata e di ascolto non frequente. Note sono le remore espresse dal violinista Joseph Joachim riguardo l'opera, che infatti non terrà a battesimo. Sarà compito del virtuoso Ondricek presentarla al pubblico, nell'ottobre del 1883. Il solista, nel nostro caso, era Joshua Bell. Grande talento, suono e intonazione sempre perfetti, animati da una visione più orientata sul versante lirico che sul burrascoso temperamento slavo. Harding, anche in questo caso, è attento alla struttura e ai preziosismi timbrici. Bis inconsueto, con la trascrizione di un Notturno chopiniano per violino e arpa, eseguito con partecipazione emotiva e sonorità di miracolosa trasparenza da Bell. Applausi entusiastici da parte del pubblico presente in sala.
Riccardo Cenci
22/4/2025
La foto del servizio è di Riccardo Musacchio/Musa.
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