RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La Sesta secondo Trevino

«La mia Sesta proporrà enigmi la soluzione dei quali potrà essere tentata solo da una generazione che abbia fatto proprie e assimilato le mie prime cinque Sinfonie». Così scriveva Mahler. Da quel 27 maggio del 1906, in effetti, da quando cioè la sua Sinfonia nº6 in la minore venne eseguita per la prima volta a Essen, fior di musicologi hanno tentato vederci chiaro in quella che formalmente è la più convenzionale delle sue sinfonie. Quattro movimenti, non i due dell'Ottava, non i cinque della Seconda, della Quinta o della Settima, non i sei della Terza, ma i quattro canonici, il primo in forma-sonata, uno Scherzo in seconda posizione, un Andante moderato in terza (l'inversione del tempo lento con lo Scherzo era diventata prassi comune dalla Nona di Beethoven, ma lo stesso Mahler antepose l'Andante allo Scherzo alla prima esecuzione, salvo poi ripensarci nel 1907, quando la diresse per l'ultima volta) e un Finale dalla forma più libera. Gli enigmi non sono solo tre, come quelli della «principessa di gelo», ma ben di più. Al di là della questione forse un po' retorica del “che cosa abbia voluto dire veramente”, cui si son date risposte addirittura divinatorie – la Sesta avrebbe predetto i tre colpi fatali che di lì a poco avrebbero condotto Mahler alla tomba: la morte della prima figlia, il licenziamento dall'Opera di Vienna, la malattia cardiaca, simboleggiati dai tre colpi di martello del Finale: peccato che, nel 1903-4, quando venne scritta, il matrimonio con Alma andasse bene, le figliolette fossero vive e in salute e Mahler fosse un apprezzato direttore, se non un riconosciuto compositore –, la sinfonia appare così complessa, da sconcertare anche i più agguerriti esegeti: più che “La tragica”, dovrebbe essere soprannominata “L'enigmatica” (ma certo avrebbe meno presa sul grande pubblico…).

A proposito dei tre colpi di martello: inizialmente essi erano cinque. Rivedendo il lavoro, probabilmente nel 1906, Mahler li ridusse appunto a tre, salvo poi espungere l'ultimo e conservarne due. È proprio in questa versione con due colpi che correntemente viene eseguita. Nel 1906 Mahler attendeva anche alla strumentazione della Settima, terminata l'anno prima, (il lavoro verrà prontamente messo da parte all'arrivo della folgorante ispirazione dell'Ottava, proprio in quell'estate), che con la Sesta raggiunge le vette della densità di scrittura polifonica mahleriana. Ma, proprio per rendere il più possibile trasparente questa fitta rete polifonica, le revisioni strumentative agiscono «per forza di levare», come direbbe il Buonarroti: basti prendere la prima pagina del primo movimento: i raddoppi degli archi da parte dei legni spariscono da un'edizione all'altra. E così pure il terzo colpo di martello, a pochi minuti dalla conclusione. Stupisce perciò che Robert Trevino, alla testa dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, abbia voluto includerlo nel dirigere la Sesta nel ventesimo concerto della stagione, giovedì 11 e venerdì 12 maggio 2023. L'edizione utilizzata è la Peters – Kaplan Foundation (neue kritische Ausgabe Band VI) e i tre colpi di martello sono stati voluti da Trevino stesso (ringrazio la redazione Rai per queste preziose informazioni). Si può quindi pensare a una versione dalla strumentazione pressoché definitiva ma col recupero di intenzioni precedenti: una tale operazione è stata proposta da Leonard Bernstein, quando diresse la “Sesta dai tre colpi” nel 1976 coi Wiener Philarmoniker. Anni dopo, nel 1998, lo stesso Bernstein tornò alla versione con due colpi, quando la incise nel 1998 con la New York Philarmonic Orchestra.

Da parte di Trevino, direttore ospite principale dell'OSN, “alla Bernstein” sembra anche il modo di affrontare e dirigere questa Sesta, calcando la mano su diversi aspetti, agogiche, dinamiche, ecc., forse ripensati e corretti tra il primo e il secondo concerto. Avendo assistito a entrambi, ho notato differenze di esecuzione, marginali ma significative. Mentre i tempi staccati, soprattutto per i primi due movimenti, l'Allegro energico, ma non troppo e lo Scherzo (in cui Mahler si limita a scrivere Wuchtig, cioè Pesante, ma senza indicazioni esplicite di agogica), si attestano sopra la media, cosa non del tutto negativa e che può anche giovare a quel senso di ineluttabilità che quasi “galoppa” verso l'ascoltatore, a non convincere del tutto, nel concerto dell'11, è stata l'articolazione interna del discorso musicale, comprensibile chiaramente solo a chi avesse un'idea precisa della partitura: la successione di primo e secondo tema, o di primo e secondo gruppo tematico, separati dal ponte modulante, le diverse sezioni dello sviluppo, ma soprattutto la riesposizione, variata da manuale e più massicciamente strumentata, ad esempio coi timpani a rimarcare la scansione ritmica dei quarti dei contrabbassi – e che Trevino rende in maniera impetuosa e selvaggia, viscerale –, tutto questo viene come fuso, compresso e meno accuratamente dipanato rispetto a quanto la sua oggettiva complessità esigerebbe; e lo stesso valga per le sezioni dello Scherzo, intervallato da due Trii, distinguibili, sì, ma che fluiscono senza cesure e che lo strutturano in cinque sezioni, più la coda. Netto il miglioramento passando al concerto del 12, dove tutto questo magmatico fluire viene come domato e ricondotto a una superiore intelligibilità d'insieme. Sostanzialmente sovrapponibile invece la conduzione degli altri due movimenti.

Trevino predilige, si diceva, un ritmo sostenuto, una lettura severa, decisa, piuttosto asciutta, a tratti perfino aggressiva, come nelle veementi esplosioni a piena orchestra, certune davvero eccessive, ma comprensibili all'interno di un tale contesto, che gioca a esacerbare alcuni passaggi: l'ultima, ad esempio, al termine del Finale, quella che nelle intenzioni di Mahler avrebbe dovuto abbattere l'eroe sinfonico, ha fatto sobbalzare sulla sedia più di una persona; tuttavia è necessario, se si vuole che esso risuoni quale vero e fatale coup de grace. In questa cupezza sterminata c'è posto però anche per oasi di serenità, per quanto illusorie (addirittura per vere parentesi di trionfalismo, come la coda dell'Allegro energico): l'Andante moderato, pur fremendo in sublimi abbandoni tardoromantici investiti di pletorismo, che talvolta richiamano il Rachmaninov del Secondo Concerto, introduce una distensione prima del Finale, tappa fondamentale per prendere fiato dopo due ponderosi movimenti in minore e un Finale che da solo occupa quasi metà dell'intera sinfonia – struttura che la avvicina in questo alla Nona di Beethoven. Anche qui, Trevino non si adagia su esangui mollezze: di fondo si avverte una sostenutezza che non viene mai meno e sospinge innanzi la melodia anche quando incespica su malinconiche pensosità: ma ciò non fa che esaltare il carattere del brano, brano che risulta morbido e ben cantato.

E poi il Finale. Il Finale più complesso mai scritto da Mahler, che segue grosso modo l'andamento di quello della Seconda: frammenti tematici, dapprima esposti in apparenza casualmente, quasi giustapposti senza un motivo, e poi via via ripresi, ampliati, messi tra loro in dialogo, fatti scontrare, collidere, risorgere e annegare, in un saliscendi emotivo che Bruckner, coi suoi crescendo troncati di netto e le sue ripartenze, aveva appena suggerito e fatto intravedere, ma che qui sono calati in un calvario – interpretabile, anche se non necessariamente, come una forma-sonata – tutto teso all'annientamento definitivo, oltre il quale vi è il nulla del silenzio. L'abilità di Trevino sta qui, come già nei primi due movimenti, nel non far scemare la tensione, nel tenerla sempre viva, dalla frenesia delle quartine di semicrome, che scivolano via febbrili, all'incedere dei passi più teatrali, alle brevi distensioni e ai crolli improvvisi, che sarebbe riduttivo ricondurre alle sole martellate, invero più scenografiche che indispensabili.

In piena forma, l'OSN risponde partecipe alle indicazioni del direttore con la perizia e la precisione cui ha abituato i suoi fedelissimi. Particolarmente apprezzati sono stati gli interventi di legni e ottoni, dal clarinetto di Enrico Maria Baroni al penetrante corno inglese di Teresa Vicentini, dalla cupa e minacciosa tuba di Matteo Magli al primo trombone di Diego Di Mario; un encomio anche per gli otto corni, nove con l'assistente, e a tutta la sezione degli archi. Qualche impercettibile défaillance della prima tromba, nel registro acuto, chiamata a spiccare da sola su tutta l'orchestra in rischiosi passaggi scoperti, non inficia una prova di alto valore artistico, salutata dagli applausi convinti di un pubblico provato ma soddisfatto.

Christian Speranza

20/5/2023

 

 

 

 

 

 

22/10/2022