L'olimpica perfezione di Harding
nella Seconda di Mahler

Il sinfonismo mahleriano viene sovente apparentato alla forma romanzesca, per i suoi smisurati orizzonti e le ambizioni che trascendono il tempo effimero della vita di un uomo per attingere all'eterno. Nella Seconda il compositore non narra sé stesso, come alcuni suggeriscono, ma “oggetto della narrazione è il sistema di significati del sinfonismo europeo, in cui egli cerca radici proprie”, per citare il sempre illuminante Quirino Principe. Di tale complesso edificio Daniel Harding, giunto al secondo tassello dell'integrale che in annate successive animerà le stagioni ceciliane, è interprete lucido e consapevole. La sua lettura sorprende per la varietà dei piani sonori, dalle frasi appena sussurrate ai parossismi delle impennate gloriose. L'impalcatura mahleriana trova nel direttore britannico regista attento a ogni minimo dettaglio, capace di tornire i tasselli architettonici con raffinata levigatura. Tutto risplende in maniera sovrannaturale, e non è un caso che ci troviamo di fronte a una sinfonia dove l'afflato metafisico è centrale.
La sintonia con l'orchestra dell'Accademia è già perfetta, e non era scontato a così breve distanza dall'assunzione dell'incarico di direttore musicale. Il primo tempo apre la scena su una sorta di marcia dall'incedere drammatico. Durante l'intero movimento si alternano luoghi tempestosi e oasi visionarie, sbalzati con magnifica evidenza. Se qualcosa manca è l'inquietudine che questa musica ha indubbiamente al proprio interno, il senso perturbante del disfacimento. Anche il secondo tempo, apparentemente un rassicurante Ländler, contiene in realtà i germi della corruzione. Il terzo tempo, con il suo andamento da valzer ubriaco e surreale, contrappone elementi eterogenei che additano una tormentata complessità. L'intricato tessuto sinfonico viene dipanato da Harding con apollinea perfezione. Il meglio viene con l'introduzione della vocalità. Il quarto movimento, Urlicht, è un momento di sospensione nel fragore mondano. Eccellente Sasha Cooke nel delineare questo improvviso bagliore nella disperante oscurità. Il Finale, non immemore dalla lezione wagneriana del Parsifal, propone scenari apocalittici nell'incipit strumentale, salvo poi aprirsi alla speranza della resurrezione quando entra in scena il coro. Harding riesce qui a evocare l'ineffabile promessa, l'auspicata liberazione dalle cure del mondo. Ottima la resa del Coro dell'Accademia, perfettamente equilibrato, buona quella del soprano Hanna-Elisabeth Müller. In definitiva una Seconda che non può lasciare indifferenti, vista la cura del dettato strumentale, la chiarezza dell'esposizione e l'assenza di ogni deriva retorica, ma che in parte sacrifica alla bellezza del suono la tesa dialettica che è alla base del pensiero mahleriano. Apriva il concerto una commissione ceciliana, Il carro del tempo di Enrico Scaccaglia, in prima esecuzione assoluta. Un brano con una dignità propria e non solo un riempitivo, che colpisce in particolare per la sontuosa ricerca timbrica, per la lucidità del pensiero creativo e per la capacità di delineare un universo mutevole e di affascinante complessità. Un brano dalla scrittura complessa, che trova in Harding un attento esecutore. Trionfo per tutti in occasione del primo dei tre appuntamenti previsti, datato cinque giugno.
Riccardo Cenci
10/6/2025
La foto del servizio è di Riccardo Musacchio/MUSA.