RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Sit Medea ferox invictaque…

“Dal palazzo di Creonte…”. La famiglia reale è ormai ridotta ad un pugno di cenere ma ad annunciarlo, ansimante e non visto, è una sorta di Messaggero reporter in collegamento “vita in diretta” mentre del fumo si leva già dal theologhèion, discreto e candido. In alto, sulla tenda-padiglione della “barbara”Medea (l'intenzione dello scenografo e costumista Ezio Toffolutti è rievocare ruderi antichi e moderni e persino la Gedachtniskirche di Berlino) è proiettato il volto di Giasone, più imbambolato che sgomento.

Com'è datata l'avanguardia. E come riescono ad essere ridondanti i riferimenti obbligati ad una contemporaneità che, grazie a Zeus, i classici, nomen omen, possiedono già prepotentemente nel loro dna.

Avevamo salutato con sollievo (e non ce ne pentiamo) nella stagione 2015 dell'Istituto del Dramma antico al Teatro greco di Siracusa l'assenza di giacca e cravatta ed altre sperimentali e sperimentate macchinerie in Le supplici di Eschilo e Ifigenia in Aulide di Euripide che hanno preceduto Medea di Seneca, Valentina Banci nel title role. La regìa è di Paolo Magelli che ne è anche il dramaturg inquieto e sulla composta e fluida traduzione di Guido Paduano opera tagli e recuperi, ora sposta battute ora le assegna ad altri in un continuo fare e disfare. Approfitta così non poco del fatto che Seneca - le cui tragedie, all'epoca destinate alla lettura, tali dovrebbero restare e semmai studiarsi in accademia come taluni drammi di Ibsen - procede per blocchi giustapposti e dunque le singole scene si succedono spesso senza grande nesso di causalità.

È comune denominatore dei tre allestimenti, l'abbiamo apprezzato non poco nei tre progetti scenografici, l'assoluta sobrietà: sabbiose wasted land ora di migranti disperate, ora di vittime della ragion di Stato, ora di vendette trasversali e trasversali infanticidi.

Dal canto suo, Medea mostra un'acre, onnivora distesa di sale su cui s'affaccia l'antro bianchissimo della “barbara” e, a destra, pulsa il suo angolo di fattucchiera.

Ma, a proposito d'avanguardie mai sopite, ecco giungere un Coro (di soli uomini nell'originale, qui punteggiato da più presenze femminili, inossidabile punto di forza, in questo spettacolo come negli altri in cartellone) elegantemente abbigliato in uno stile d'ordinanza cechoviana (le donne come Varja del Giardino dei ciliegi, gli uomini in odore di Zio Vanja). A loro s'intoneranno, gradualmente e con le dovute modificazioni, gli abiti di Medea (a un certo punto infilerà un abito similissimo a quello di Edda Ciano nel giorno delle nozze) che, in apertura, invece, ha ancora la testa fasciata in una sorta di turbante ed il corpo castigato in un cappottone militare che ne scoprirà, di lì a poco, la spartana lingerie da soldatessa. Ancora accosciata, come in missione di guerra, lei indirizzerà le sue prime parole agli dei protettori del matrimonio e poi ad entità mostruose come il Caos e le Erinni.

Sit Medea ferox invictaque, tuonava Orazio nell'Ars poetica e segue le istruzioni la Banci - di cui s'intuisce un talentaccio sanguigno ed un piglio instancabile spesso canalizzato in una gestica di maniera (corsette e barcollamenti) non senza trovate déjà vu (ma queste sono scelte di regia): rivolgersi agli spettatori in prima fila, salire i primi gradini in cavea, eliminare una serie di battute privilegiandone una sola per ripeterla fino allo sfinimento, come un loop.

Ne pueros coram populo Medea trucidet, prosegue Orazio ma ad osservare il precetto, Seneca, elisabettiano ante litteram, non ci pensa nemmeno ed i due innocenti, infatti, saranno uccisi in scena - la Banci sembra pugnalarli dolcemente lasciando come una croce di sangue sul petto.

Non c'è spazio per i lamenti e alla donna assassina fa da contrappunto il Coro, le cui potenzialità canore vengono spesso “ridotte” in urla di guerra in stile pellirosse. E diremo subito che il tessuto musicale di Arturo Annecchino, compositore assai interessante, qui è decisamente ipertrofico e, più che un filtro magico, la partitura (rap, mambo e molto altro) diventa un pastone carico di suggestioni che spezzano la tensione drammatica portando il pubblico ad applaudire di continuo.

Non più la scena euripidea di Medea ed Egeo che le offre riparo ad Atene. E, se nel greco sono le passioni a dettar legge, nel latino ciò che conta è il ruolo sociale. A ciò poco s'addice il colloquio da sit-com di un Creonte un po' troppo “da camera” (Daniele Griggio). Giasone che in Euripide offriva alla donna ripudiata aiuto pratico ed economico, qui si fa intermediario di eventuali “favori” da parte di regnanti e trova in Filippo Dini un “eroe” dai toni strozzati, reazioni impacciate (le dirà “Uccidimi” come in un film western) che suscitano ilarità più che partecipazione drammatica.

Non interviene mai attivamente ma resta al fianco di Medea, la Nutrice- Francesca Benedetti, nerovestita come madre perennemente a lutto, qui incline ad un “canto” scenico - quando, terrorizzata, racconta i sortilegi della padrona - non consono all'azione drammatica. Completano il cast Diego Florio (Messaggero), Enco Curcurù (Argonauta).

Non è certo preda di grandi sentimenti ma è pur sempre paladino di Giasone, il Coro - citeremo, per tutti, una donna-voce come Simonetta Cartia ed un attore sensibilissimo come Francesco Mirabella ma tutti e 14 dimostrano solidità professionale e intensa presenza scenica. Saranno dunque loro, alla fine, ad arrampicarsi sulla tenda di Medea che scalcia come un toro stanco nell'arena ed eseguire un curioso rito di (finta) sepoltura. Con una fisicità che fa venire in mente certo Nekrosius, a turno scaraventano sacchi di sale su di lei che non ha ritegno rimpiangendo addirittura di non aver generato sette figli come Niobe per poterli ammazzare tutti. Perciò, tuttaltro che morta, lei aspetta il suo tempo e intanto se ne resta immobile come uno di quegli scarabei che, tuttaltro che morti, riescono ad emergere da montagne di sabbia.

Carmelita Celi

20/5/2015

Le foto del servizio sono di Michele Inzivilli.