RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Requiem di Verdi secondo Treviño

Immancabile appuntamento del Festival Verdi, il Requiem del Bussetano trionfa anche quest'anno nella data unica di sabato 18 ottobre 2025. Per la XXV edizione del Festival è chiamato a dirigerlo Robert Treviño, che sale sul podio del Teatro Regio di Parma e si pone alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini, coadiuvato da una scelta rosa di solisti e dal valente Coro della Casa, al solito splendidamente preparato dall'attento Martino Faggiani.

Non è il primo concerto che ascolto diretto da Treviño; ma finora mi è capitato di ascoltarlo in repertori sinfonici, puramente strumentali, da cui è sempre uscito a testa alta. L'incontro con un repertorio vocale sacro, e, seppure non dichiaratamente, di ascendenza teatrale, avrebbe potuto presentare qualche difficoltà; e invece, Treviño ha saputo coniugare le esigenze espressive legate allo strumentale con un taglio direttoriale non indifferente alle voci, pur non rinunciando a declinare tale rapporto in chiave personale. Treviño opta per una lettura più lirica che drammatica. Dall'orchestra ottiene un suono che non è mai “duro”, severo, tedesco, alla Karajan; e men che meno sposa quel taglio più fiammeggiante alla Toscanini. Treviño predilige la fusione dei timbri, gli amalgami orchestrali, più che la scomposizione delle trame polifoniche laddove il contrappunto verdiano si fa più dotto, vedi la doppia fuga del Sanctus; le agogiche sono, nel complesso, rilassate ma non lasse; è un Requiem coerente e unitario, che si prende il suo tempo, pur stando nell'ora e mezza precisa di una tipica esecuzione. E che così facendo penetra nelle ossa e dà modo di essere gustato nota per nota; e rinunciando per una volta all'approccio più analitico del seguirlo su partitura, si gusta ancora meglio.

Le luci si abbassano e l'esecuzione inizia. No. Non inizia. La precede un lungo istante di silenzio, quel silenzio che prelude alle grandi emozioni e alle grandi occasioni, che si carica di aspettativa, che permette di concentrarsi, di accostarsi col dovuto rispetto, con la dovuta reverenza a una musica che non è teatro, ma rito. E dalle nebbie del silenzio ecco emergere impercettibili i violoncelli, con quel loro arpeggio di la minore appena sussurrato, in pianissimo, che nella grande sala del Regio quasi si fa fatica a udire, tanto è delicato; e un sussurro pare anche l'ingresso del Coro, letteralmente sotto voce come prescritto. Un Coro, diciamolo subito, che sa essere all'altezza lungo tutta l'esecuzione e che sa di volta in volta adattarsi alle diverse espressività, pur restando in quella luce direttoriale detta prima. Singolare a questo proposito che il massimo di drammaticità venga raggiunto non nel conosciutissimo avvio del Dies iræ, diretto in modo meno violento delle aspettative, con quelle scale degli archi non indiavolate, ma corrette, pulitissime, pur ruspanti come devono essere e pur con l'uso della doppia grancassa per ingrossare i contrattempi, ma più avanti, ad esempio dopo l'appello delle trombe che entrano in successione – quelle separate dislocate nei palchi di proscenio a destra e sinistra, una per lato – o in altri momenti, come nel Rex tremendæ (dove un mirifico diminuendo dal fortissimo al pianissimo dà proprio l'idea dell'anima che si fa piccina per nascondersi dalla collera divina): quasi a ribadire che non è lì che l'attenzione deve appuntarsi, ma altrove. E il fatto che la terza ripresa di quell'avvio sia stata condotta a velocità appena superiore, trasmette il pensiero che ormai quella musica è cosa nota, e invita a passare oltre, ripeto, a soffermarsi su altro.

La Filarmonica segue da presso le indicazioni di Treviño. Il suono è limpido, pur fuso nel suo insieme, ben centrato, con assoli puliti e precisi – vorrei ricordare il fagotto di Davide Fumagalli e l'oboe di Gian Piero Fortini. L'efficace concertazione permette inoltre di trovare un buon bilanciamento fra strumenti e voci, che non vengono mai coperte e alle quali è dato il giusto risalto, per poi incorporarle negli insiemi laddove necessario, ma senza sprofondare (quasi mai) nel caotico. Solo talvolta si ha l'impressione fugace di ripieni non bene a fuoco.

Si venga ora al cast. Apre Piero Pretti, veramente in gran forma. La sua vocalità calda e spiegata è un balsamo per le orecchie; ai suoi archi melodici è sottesa una musicalità accesa, da cui consegue un fraseggio morbido e un canto legato. Gli acuti sono solidi, ben presi, tenuti senza vacillare e proiettati con sicurezza.

Inossidabile, Michele Pertusi non necessita di presentazioni; del basso parmigiano, beniamino del Festival e acclamato a a fine serata, nato e cresciuto al Regio, basti sottolineare l'ampiezza del volume, il portamento sempre nobile del canto, la dizione e lo scavo della sillaba – quell'attonito «mors», quel sentito «salva me»! – che rende la sua prestazione collocabile ad alti livelli, complice il fatto di aver partecipato a innumerevoli esecuzioni.

Seducente rivelazione è il mezzosoprano Valentina Pernozzoli, voce piena, ambrata, che affonda con sicurezza nel grave, non perde di smalto negli acuti e ha il merito di avvicinare il testo latino adattando l'espressione al significato: nel Liber scriptus è austera, impersonale, e trattandosi di un testo che del futuro nel buio discerne, il tono si avvicina a quello oracolare di altre voci scure verdiane, Azucena o ancor più Ulrica; ma poi, nel Recordare, ad esempio, è capace di morbidezze di accenti e gradevoli sfumature. Rilevante è anche l'importanza data all'articolazione delle frasi.

La tempra drammatica di Marta Torbidoni si fa avanti per riconfermarla l'ottima professionista che è. La si ammira fondersi negli assiemi solistici, duettare alla pari con Valentina nel Recordare, ma anche e soprattutto svettare al di sopra di coro e orchestra, come nel Rex tremendæ, con apparente facilità. È una voce penetrante, la sua, sonora, cristallina, vibrante – peccato solo per qualche sottigliezza, talvolta non troppo sfumata, specialmente nei piani e nei pianissimi – e che in grazia di ciò dispiega il massimo nel Libera me, che rende con accorata partecipazione al testo e viva drammaticità di accenti.

E quando la sua voce si è spenta, più denso e significativo di qualsivoglia applauso, più ricco, più fragile e più rispettoso, è stato l'altro lungo istante di silenzio, quello che ha accolto la fine del Requiem, prima di dare la stura a una calorosa accoglienza per tutti, Pertusi in primis: quell'istante in cui si raddensa e si quieta l'altalena delle emozioni e si fa decantare dentro di sé ciò che si è appena ascoltato.

Christian Speranza

20/10/2025