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Oro e incenso per Mirra ?

Marco Emanuele

Procedendo per esempi illustri, la première del Barbiere di Siviglia di Rossini fu un fiasco; idem per la Norma di Bellini e la Traviata di Verdi: il tempo, è vero, seppe poi compensare a dovere la cecità dei contemporanei alla prima accoglienza (per contro del pari seppellendo nell'oblio, a torto o a ragione, numerosissime altre opere salutate, alla nascita, da ovazioni entusiaste), ma ciò non cancella l'iniziale miopia dei bovini censori. Valutare oggettivamente una nuova composizione alla sua première, senza indulgere in encomî o ricorrere al gessetto di Beckmesser, è rischioso, perché non si può averne ancora una prospettiva storica: e ciò pone il critico nell'aleatoria posizione di profeta, non si sa quanto veridico, di buona o cattiva sorte.

Fatta questa premessa, mi avvicino in punta di piedi alla Mirra di Marco Emanuele, opera da camera in un atto andata in scena in prima esecuzione assoluta lunedì 18 aprile 2016 all'Auditorium Orpheus (Educatorio della Provvidenza) di Torino nell'ambito delle Aurore Musicali, rassegna concertistica che, nata come trampolino di lancio per giovani scoperte del canto e della musica strumentale ad opera del talent scout Walter Baldasso, sopravvive, dopo la sua morte nel 2010, sotto la direzione artistica di Antonella Lo Presti e Marco Leo. Ed è proprio grazie all'invito di Marco Leo, musicologo che ha fatto del belcanto del primo Ottocento il suo terreno d'elezione (oltre ad essere, tra le altre, una firma prestigiosa di Bellininews), che Marco Emanuele (curiosa e illustre combinazione di Marchi!) ha completato la sua opera, proprio ispirandosi al melodizzare tipico dell'epoca di Bellini e Donizetti.

Mirra, opera da camera, si diceva, scritta per sette strumenti e quattro cantanti. Un genere poco frequentato dai compositori contemporanei, quello dell'“opera da camera”, un genere non molto noto e non molto visitato neanche in passato, presente già nell'Italia del Romanticismo (Il convitato di pietra di Pacini), che, prendendo le mosse dalle Cantate da camera sei-settecentesche per voce solista e succinto accompagnamento orchestrale (la Bella Madre dei Fiori di Alessandro Scarlatti, o le Cantate per camera a voce sola Op. 10 e Op. 13 di Giovanni Maria Bononcini), adattavano una vicenda ad un organico cameristico, riducendo al minimo il numero delle voci e degli strumenti. L'allestimento di questi lavori è il più delle volte in forma di concerto, l'azione del dramma essendo concentrata in pochi tratti salienti e il resto lasciato all'immaginazione del pubblico. E la riscoperta di questo genere prosegue: e così, se La favola di Orfeo Op. 51 di Casella, è stata rappresentata l'11 aprile 2016 al Piccolo Regio Giacomo Puccini di Torino in occasione del «Festival Alfredo Casella», nel 2011, al Festival «Rossini in Wildbad», ha rivisto la luce, dopo secoli, Il noce di Benevento di Giuseppe Balducci, per poche voci e due pianoforti.

Per la prèmiere della Mirra di Emanuele sono state invitate personalità di spicco del mondo accademico-musicale torinese: erano presenti in sala, tra gli altri, Giorgio Pestelli ed Elisabetta Fava, docenti universitari e musicologi. La presentazione dell'argomento dell'opera (il mito greco di Mirra – narrato nel libro X delle Metamorfosi di Ovidio – che, preda d'un amore insano, consuma un rapporto incestuoso col padre Ciniro, dal quale nascerà Adone; le lacrime versate dalla sventurata si sarebbero trasformate, poi, nella ben nota gommoresina aromatica della Commiphora) e della sua fonte diretta, la Mirra di Vittorio Alfieri, da cui lo stesso Emanuele ha tratto il libretto accomodandone la metrica con le esigenze del canto, è stata curata dalla professoressa Clara Leri, docente di Letteratura Italiana presso l'Università degli Studi di Torino, mentre Alberto Bazzano, critico musicale, ha illustrato perspicuamente i rari adattamenti operistici di Alfieri nel teatro italiano, tra cui la Mirra di Domenico Alaleona, che mise in musica gli ultimi due atti tal quali della tragedia alfieriana, affrontando la difficoltà di musicare il poco duttile endecasillabo sciolto (ma è pur vero che Alfieri fu, col suo lessico, uno degli ispiratori diretti di diversi librettisti dell'Ottocento, Salvadore Cammarano in primis, ma non solo). È toccato poi ad Alberto Rizzuti, docente universitario e musicologo, introdurre la figura di Marco Emanuele, compositore, saggista, insegnante e, per l'occasione, librettista della sua opera, brevemente intervistato, a seguire, da parte di Marco Leo, organizzatore dell'evento.

L'organico strumentale (Luca Rossetto Casel: flauto; Fabio Freisa: clainetto; Martin Mayes: corno; Patrizia Giannone: chitarra; Stefanina Priotti: violino; Laura Culver: violoncello; Marlon Crispatzu: violoncello) si presenta come l'epitome non ulteriormente riducibile di un'orchestra barocca-classica, più che romantica (i timpani e i più roboanti ottoni essendo ancora di là da venire), con la chitarra ad imitazione del clavicembalo per i recitativi secchi e un esponente singolo per le sezioni principali di legni ed archi. Diretta dal maestro Edoardo Narbona (fondatore nel 2003 dei Musici di San Grato), dopo qualche iniziale difficoltà ad entrare “in temperatura”, è parsa discretamente affiatata, sebbene talora, soprattutto nella sezione degli archi, ci sia stato qualche calo di tono, che non so se imputare ad una non perfetta accordatura degli strumenti o a difetti di altra natura (dettame del compositore?). Tutti validi i cantanti interpreti: Marina Degrassi, l'eroina eponima (soprano), e Tatjana Korra (soprano, benché la parte sia più per mezzosoprano) nel ruolo di Cecri, madre di Mirra, dimostrano un bel controllo vocale e uno squillo che permette alla voce di correre senza problemi e di impennarsi nella tessitura acuta, sovente richiesta da Emanuele. Rivelazione il controtenore Angelo Galeano, alias Pereo, promesso sposo di Mirra, che, pur scivolando talvolta nel registro tenorile vero e proprio – dove si nota un timbro da tenore belcantista, chiaro e squillante, probabilmente di testa: trattasi infatti di controtenore e non di sopranista – non lesina ottimi acuti in falsetto corredati di un volume notevole. Giuseppe Gerardi, basso, nel ruolo di Ciniro, stenta inizialmente ad incupire la voce, ma gli basta poco per scaldarsi e prendere possesso del suo registro di basso rossiniano, una voce basso-baritonale agile, non troppo scura e non troppo grave.

Discorso a parte per la musica di Emanuele. Non si tratta di un mero calco neoclassico di strutture antiche, ma di una rivisitazione che fa del pastiche il suo elemento peculiare, unendo certa ascendenza barocca nei recitativi a un influsso più spiccatamente primo-ottocentesco nei pezzi d'insieme, che risultano i più riusciti e i più coinvolgenti, massime il n.4 (terzetto Mirra-Cecri-Ciniro) e il n.5 (coro e concertato Mirra-Cecri-Ciniro-Pereo), in cui il compositore ha chiamato tutti e quattro i cantanti a unirsi in un canto corale, uso quanto mai originale dei solisti, che usualmente, nei terzetti e quartetti, cantano a voci indipendenti. Non manca l'influsso modernista nell'uso alternativo della voce con «intonazioni non canoniche (sussurri, bocca chiusa)» (Emanuele, dal programma di sala). Meno convincente è parsa invece la parte strumentale, forse per l'esiguità dei mezzi impiegati, forse per colpa delle poche prove d'insieme; in particolare è risultato disorganico e poco orecchiabile l'Intermezzo-Passacaglia volto ad isolare la scena finale per darle maggior risalto.

Al termine della serata, applausi e ripetuti richiami sul palco hanno indorato e incensato la Mirra e il suo compositore: ma «ai posteri / L'ardua sentenza».

Christian Speranza

2/5/2016