RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Dinanzi alla legge

L'ennesima riscrittura del fenomeno mafioso? Anche se così fosse, non sarebbe poi un male, vista la tendenza generalizzata degli italiani a dimenticare il loro passato, più o meno recente, prova ne siano le recenti affermazioni, elettorali e non, di personaggi i cui slogan hanno fatto ripiombare l'Italia in un clima ideologico dai contorni plumbei, all'interno del quale si confonde il persecutore con il perseguitato, e un uomo politico pericolosamente contiguo all'estrema destra e a movimenti di stampo razzista osa paragonarsi a Liliana Segre, l'ultima sopravvissuta italiana di un campo di concentramento nazista, adesso costretta a vivere sotto scorta. Ma, divagazioni politiche a parte, riproporre ancora una volta sulla scena il fenomeno mafioso, magari da un'angolazione prospetticamente diversa, e con una costruzione del personaggio in certo senso surreale, è quanto mai utile a impedire che la dimenticanza, facile nella mentalità comune, avvolga tutto nelle sue nebbiose spire, riducendo la mafia a semplice delinquenza comune. Perché è proprio questo l'equivoco sempre in agguato, o meglio la possibile banalizzazione, politica e non, nei riguardi di un'organizzazione delinquenziale assolutamente peculiare, le cui propaggini si innestano in tutti i gangli della società, corrompendola, soffocandola e impedendo, complici talvolta certi uomini in posizioni chiave, un reale annientamento sin dalle radici del fenomeno mafioso, annientamento reso impossibile dal fatto che, proprio come certe frange (oggi purtroppo non tanto esili) di intolleranza e di nostalgia destrorsa, tale fenomeno è, lo si voglia ammettere o no, un fecondo serbatoio di voti per chiunque voglia approfittarne.

Fatta questa doverosa premessa, va comunque sottolineato che Il mio nome è Caino, intenso atto unico di Claudio Fava, andato in scena al Piccolo Teatro di Catania dall'8 al 10 novembre, prodotto da Maurizio Puglisi per Nutrimenti Terrestri, con la regia di Laura Giacobbe, le luci di Renzo Di Chio e i costumi di Cinzia Preitano, si prefigura come un'originale decostruzione-ricostruzione della figura di un uomo di mafia, all'interno dei cui pensieri l'autore scava in maniera impietosa, lasciando emergere senza veli quella pretesa di normalità, quasi di legittimità che ogni mafioso si porta dentro, pretesa da sempre contigua a un'interpretazione storica che vedeva la mafia come reazione spontanea dei siciliani alle angherie della dominazione straniera prima, dell'Unita d'Italia dopo, reazione che avrebbe riunito attorno a sé uomini di buona volontà con l'intento di proteggere la popolazione e di stabilire un ordine più giusto rispetto a quello voluto del governo centrale.

Il killer che Fava porta sulla scena riunisce in sé le caratteristiche del mafioso e dell'assassino più efferato: sa che si nasce mafiosi, non lo si diventa, che l'essere mafiosi è il risultato di un fenomeno di imprinting che comincia dalla nascita, imprinting che struttura una personalità feroce e al tempo stesso assolutamente convinta di essere nel giusto, priva di vergogna, che nel dare la morte, senza alcun motivo che non sia quello astratto di mantenere intatto l'onore della società, vede un atto di onnipotenza, ingiudicabile, un'estrema affermazione di se stesso. Man mano che la pièce procede, lo spettatore avanza mentalmente ipotesi su chi sia in realtà il protagonista: all'inizio, seduto e rivolto a un anonimo giudice, somiglia molto a Tommaso Buscetta, poi a una delle tante figure di primo o secondo piano che agivano ai tempi del corto (Totò Riina), dopo ancora all'efferato assassino del piccolo Giuseppe Di Matteo: solo alla fine si comprende che a parlare è un morto, freddato da una mano armata dalla stessa logica che lo ha condotto ad ammazzare decine di persone. Una costruzione all'incontrario, dove ogni tassello va al suo posto con le ultime battute: il giudice a cui il mafioso parla all'inizio è allora l'Onnipotente? L'anonimo killer descrive se stesso dinanzi a chi? Alla storia, all'inappellabile tribunale dell'al di là, a giudici muti e impassibili che si identificano col pubblico? E si mette a nudo finalmente, svelando nell'estremo tentativo di giustificarsi tutta l'abiezione morale della sua concezione del mondo e dell'umanità.

E su questo intenso monologo si snodano le note di un'antica canzone isolana che molto ha a che fare con la morte, frammenti del Requiem di Mozart, interpretati con garbo e discrezione da Cettina Donato al pianoforte, mentre il personaggio senza nome si staglia in tutta la sua enigmaticità, nella mimica scabra e ruvida di Ninni Bruschetta, che recita con distaccata nonchalance un personaggio odioso, al quale riesce a infondere una gelida mancanza di umanità, una sicumera blasfema della quale solo alla fine si comprende tutto il luciferino orgoglio, e nello stesso tempo quella quotidianità rassicurante del vero mafioso, fatta di pazienza, di attesa, di comprensione di un codice comportamentale dalle regole rigidissime. Senza mai indulgere a compiacimenti naturalistici, misurato nel gesto come nella pronuncia, volutamente sporca ma priva di accattivanti e quasi folkloriche forzature, Bruschetta ha affidato tutta l'efficacia della recitazione a una mimica che scolpiva ogni particolare del mafioso, riuscendo a mantenere sino all'ultimo istante quella ambiguità sulla reale consistenza del personaggio che solo la fine svelerà, permettendo al pubblico di riavvolgere in pochi momenti tutto il nastro ideale della pièce e comprendere sino in fondo la portata dei tanti indizi disseminati qua e là dall'autore.

Giuliana Cutore

11/11/2019