RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Ma non è una cosa seria

al Brancati di Catania

Curare la regia teatrale di un lavoro di Luigi Pirandello non è mai facile, ed è sempre una faccenda maledettamente seria: innanzitutto per la presenza delle didascalie in un certo senso carceranti, che limitano e vincolano le scelte registiche e la conseguente direzione degli attori; in secondo luogo perché vi sono battute cardine e momenti chiave che debbono essere esattamente individuati per evitare di lasciarli scivolare inavvertiti impedendo agli spettatori l'esatta comprensione delle finalità del testo; in terzo luogo perché il Pirandello leggero, quello per intenderci delle commedie dove l'umorismo del grande agrigentino è meno caustico, meno lacerante e più ilare del consueto, non è da rendere in maniera senz'altro comica, dal momento che anche in tali commedie è sempre presente il personaggio cosiddetto pirandelliano, attorno al quale di fatto ruota tutto il lavoro e il messaggio ad esso sotteso, rassicurante o inquietante che sia. Ultima e maggiore difficoltà è che in questo tipo di commedie la tentazione del comico puro, della risata fine a se stessa, della captatio benevolentiae nei confronti del pubblico da parte del regista è più forte che in altri lavori, e con esiti ancor più disastrosi, almeno per la fedeltà testuale, quando a esserne vittima è Pirandello.

Occorre dunque un regista molto attento e scrupoloso, ma soprattutto che sappia guidare con mano ferma gli attori, che sia in grado di far emergere quanto hanno di meglio nelle loro tavolozze espressive, e che soprattutto comprenda che lo stesso paziente lavoro va compiuto sia sui protagonisti, sia sui comprimari, sia sui personaggi di minor rilievo, dal momento che anche la minima sbavatura può tramutare l'umorismo pirandelliano nel comico di più bassa lega.

In tale ottica, la regia che Romano Bernardi ha curato di Ma non è una cosa seria, andata in scena al Brancati di Catania il 7 dicembre, con repliche sino al 7 gennaio, ha soddisfatto ampiamente questi requisiti, offrendo al pubblico un Pirandello ilare e magari un po' scanzonato, più attento alla vita che scorre nonostante tutto invece che alla logica ferrea alla quale costringe i suoi personaggi in altri drammi, ma sempre critico verso l'umanità quando quest'ultima si lascia vivere sull'onda del formalismo e delle convenzioni borghesi. Bernardi si è mosso con grande misura, evitando le secche del farsesco ma anche quelle del cerebralismo che avrebbe irrigidito la commedia, ma soprattutto è riuscito a uniformare la recitazione di tutti gli attori, senza permettere che i personaggi più comici prendessero il sopravvento sull'attenzione del pubblico, e che quelli di contorno risultassero stereotipi e poco curati. Questa omogeneità di fondo ha consentito ai due protagonisti, Gasparina e Speranza, di emergere nella loro giusta luce e ha reso graduale e in certo senso naturale il loro progressivo mutamento, mutamento la cui chiave di volta si annidava nel secondo atto, quello dove il germe dello scioglimento felice deve rivelarsi nei gesti, nelle movenze e in certe frasi, senza però emergere pienamente.

Sia Debora Bernardi, Gasparina, che Filippo Brazzaventre, Memmo Speranza, si sono mossi con grande professionalità lungo questa linea: se nel primo atto l'irruenza baldanzosa del secondo strideva alla perfezione con l'assoluta e voluta opacità della prima, che sembrava far di tutto per tentare di nascondersi sulla scena come il suo ruolo richiedeva in quel momento, nel secondo le differenze cominciavano pian piano a dileguarsi, e quel che guadagnava Gasparina sulla scena sembrava calmare e rendere un po' più esitante Speranza, ma sempre senza parere, pur nei gesti della donna che rassettava la stanza del marito per finta, ancora umile e sottomessa ma già più decisa, mutata dentro come nell'abbigliamento, per esplodere infine nel terzo atto (è davvero un fiore, scrive Pirandello nella didascalia) in tutta la sua naturale e troppo repressa vivacità, cui doveva fare eco, come è accaduto, un genuino entusiasmo da parte di Speranza, che Brazzaventre ha reso con grande partecipazione ma al tempo stesso con notevole misura, quasi ammiccando al pubblico, naturalmente portato a chiedersi quanto sarebbe durato questo ennesimo innamoramento.

Il resto della compagnia si è mosso con eguale disinvoltura, dal bravo Camillo Mascolino, nel ruolo di Grizzoffi, a Salvo Scuderi, il professor Virgadamo, dalla disinvolta e civettuola Evelyn Famà alla contegnosa Maria Rita Sgarlato, da Lorenza Denaro a Maria Iuvara, Gianmarco Arcadipane e Riccardo Vinciguerra. Molto a suo agio stavolta Riccardo Maria Tarci nel ruolo del “ridanciano” Magnasco: la sua recitazione è da qualche tempo in sicura crescita, e speriamo di poterlo apprezzare in parti anche più importanti. Infine, di ottimo livello la prestazione di Sebastiano Tringali, il tartagliante signor Barranco, vedovo benestante segretamente innamorato di Gasparina: ha saputo infondere al suo personaggio una sdegnosa signorilità mai affettata, non cedendo mai alla tentazione di tramutare la balbuzie imposta al ruolo in spunto di crassa comicità, mantenendo quell'efficace equilibrio attoriale che ha caratterizzato tutta la compagnia.

Gradevoli come sempre le scene di Susanna Messina e perfettamente in tema i costumi delle Sorelle Rinaldi.

Giuliana Cutore

8/12/2017