RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Invan di Norma il canto io cercai…

La voce nel contesto di un melodramma è ben altra cosa della voce in un contesto liederistico, sacro, o comunque non scenico: se nei secondi il cantante va valutato nella sua pura vocalità, intendendo per questo termine la tecnica, l'agogica, la regolarità di emissione, la correttezza dei passaggi di registro, l'abilità nella risoluzione ed esecuzione degli abbellimenti, la copertura degli acuti e via discorrendo, all'interno del melodramma, forma d'arte ibrida per eccellenza, e che dunque abbisogna di un giudizio più sincretistico ed articolato, dove oltre all'idoneità vocale in senso stretto per la tessitura, vanno tenuti in considerazione altri ed egualmente fondamentali elementi che, volendo riassumere, possono ridursi a due, e cioè l'adeguatezza scenica della voce e la capacità del cantante di veicolare il personaggio che interpreta non solo nei suoi elementi fondamentali, ma in tutte le diverse sfaccettature che esso assume nel corso dello svolgersi della vicenda.

Se questo è poco necessario per Rossini, data la tipizzazione abbastanza univoca dei personaggi e il prevalere del canto sulle esigenze più strettamente sceniche, il discorso si complica già a partire da Donizetti – e si pensi ad Anna Bolena, a Roberto Devereux, a Maria Stuarda – per divenire un'esigenza imprescindibile per Bellini e per Verdi, il cui debito verso la profonda coscienza drammaturgica del catanese non può essere ignorato; sì, perché è proprio con Bellini che si pongono le basi estetiche, musicali e drammaturgiche per quel paradossale ritorno alle origini ideologiche del melodramma, inteso dalla Camerata dei Bardi come recitar cantando, e non come un semplice cantando.

Detto questo, va ulteriormente precisato che, sempre in questo fil rouge che da Donizetti porta attraverso Bellini a Verdi, esiste un personaggio che assomma in sé quasi il paradigma di tale dinamica storica, complicato, qualora la sua complessità drammatica non bastasse, da una tessitura vocale che è in assoluto una delle più impervie del melodramma italiano, richiedendo un soprano che sia contemporaneamente drammatico e lirico, e al tempo stesso provvisto di agilità e di capacità di alleggerire la voce nel corso dell'esecuzione. Né basta: perché chi voglia interpretare Norma (e non solo dopo la Callas) deve possedere anche una versatilità attoriale di tutto rispetto e la coscienza che si tratta di una parte nella quale non ci si può permettere di risparmiare la voce per il dopo, giacché ogni nota della sacerdotessa druidica concorre a delineare un personaggio che sintetizza in sé le caratteristiche psicologiche di Medea, di Didone e in parte di Alcesti. Norma è Medea perché è figlia di re, sacerdotessa fedifraga e madre seriamente tentata dall'infanticidio; è Didone perché ama, ama disperatamente e sente sfuggirsi di mano la giovinezza e l'amato; infine è Alcesti nel finale, perché segue Pollione sul rogo, in un immolarsi insieme dettato solo dalla sua coscienza.

Questo lungo preambolo era necessario per illustrare ai lettori le premesse a partire dalle quali verrà qui valutata la Norma in scena al Massimo di Palermo dal 19 al 28 febbraio, con un cast davvero di eccezione, visto che prevedeva Mariella Devia nel ruolo eponimo, John Osborn in quello di Pollione e Carmela Remigio in quello di Adalgisa. Si tratta della versione per due soprani, come era stata originariamente scritta da Bellini, con tutti i tagli aperti (stranamente ad eccezione della parte finale del terzetto del primo atto, dopo l'intervento del coro), e si avvaleva della regia di Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi, e della direzione orchestrale di Gabriele Ferro.

Da un punto di vista scenico l'idea di fondo dei registi, di una Norma fatta di “donne che tessono, di fili che si dipanano come quelli delle Parche, di vaticini alla luna” potrebbe avere una sua validità, se non fosse che, all'interno del dramma, la luna è solo un elemento religioso tra tanti, e comunque viene subito messa in ombra dalla prepotente figura di Irminsul, che è il vero dio che si aggira minaccioso per la scena dall'inizio alla fine: Norma è sacerdotessa di Irminsul, non di Artemide, e a lui deve castità rituale, la deve ad un dio della guerra, quasi come pegno della protezione del dio al suo popolo. Inoltre, la preghiera alla luna, nella dinamica del libretto, è semplicemente funzionale al piano di Norma di rimandare all'infinito la rivolta dei galli contro i romani (tempra tu de' cori ardenti… spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel), e come tale rimane un episodio e nulla più.

Anche l'idea di uno dei due figli di Norma di colore, dettata da una generica idea di integrazione, secondo la quale Norma farebbe, grazie al suo amore per Pollione “entrare lo straniero”, mettendo “in pratica l'assunto che una comunità non può restare chiusa in se stessa, che il futuro sta nella globalizzazione”, sembra un po' tirata per i capelli, e anche qui leggermente in contrasto col libretto: nella scena ottava dell'atto primo Clotilde chiede a Norma a proposito di Pollione “e teco ei parte?”, il che fa chiaramente capire che Norma non ha intenzione di integrare un bel nulla, ma solo di fuggire dalle Gallie insieme ai figli e all'amato, concetto ribadito nell'ultima scena, quando pregherà il padre di sottrarre i figli ai barbari, espressione che la dice lunga sulla valutazione del proprio popolo da parte della sacerdotessa, e comunque su una valutazione dei Galli più calcata sull'ideologia romana che su quella di un'integrazione, che del resto i romani concepivano come assimilazione delle popolazioni straniere ai costumi romani, e non come globalizzazione tra romani e barbari.

Comunque sia, pur con queste dovute precisazioni, si è trattato di una regia tutto sommato abbastanza funzionale, grazie anche e soprattutto alle luci di Luigi Biondi, che è riuscito a creare effetti abbastanza suggestivi, e ai gradevoli costumi di Federica Parolini, in special modo per quel che riguarda i Galli. Poco azzeccati ci sono sembrati quelli di Pollione e Flavio, e soprattutto troppo poco romani, ma forse si è trattato di una scelta obbligata dall'idea di fondo di integrazione della quale ci siamo occupati sopra.

Notevolissima invece la direzione di Gabriele Ferro, che ha optato per una scelta di tempi abbastanza moderata, consona alla melodia belliniana, e a quelle di Norma in particolare, che necessitano, soprattutto nella parti più squisitamente liriche (primo e secondo duetto Norma-Adalgisa, arioso di Adalgisa, duetto Adalgisa-Pollione) di tempi abbastanza slargati, che consentano il pieno espandersi di quelle “melodie lunghe, lunghe” nelle quali Verdi ravvisava il tratto distintivo della musica del Cigno catanese. Quanto all'orchestra, ha mostrato un altissimo grado di coesione e ottimo affiatamento, che si è tradotto in un colore davvero ragguardevole, frutto di una ricerca e di un cesello delle più intime sfumature del suono belliniano che va a tutto onore di Ferro.

Anche il coro, diretto da Piero Monti, si è collocato sulla stessa linea di cesellatura timbrica e agogica, riuscendo anche nelle parti più irruente a evidenziare una coesione e morbidezza di suono, unite ad una dizione davvero egregia, che a chi scrive ha ricordato, e non tanto alla lontana, la bellezza di certe incisioni scaligere ormai entrate nella storia del melodramma.

Sul versante canoro, di buon livello sono state le prestazioni di Maria Mirò, Clotilde, e di Manuel Pierattelli nel ruolo di Flavio. Di notevole rilievo il basso Luca Tittoto, dotato, oltre che di una notevole presenza scenica, di una voce calda e possente, ma al tempo stesso luminosa, che gli ha permesso di dar vita ad un Oroveso di grande maestà e irruenza barbarica. Molto curati i suoi recitativi, e felicemente interpretati come parte essenziale del canto, come appunto prescriveva Bellini, in quanto elemento precipuo dello svolgersi del dramma e non più semplice passaggio obbligato verso l'aria.

Carmela Remigio ha forse trovato nel ruolo sopranile di Adalgisa uno dei suoi personaggi ideali, e certo quello che ha permesso alla sua voce eminentemente lirica di esprimersi al meglio delle proprie potenzialità: il timbro, ben dissimile da quello della Devia, ha fatto riemergere intatta l'idea belliniana della giovane sacerdotessa ingenua, inesperta, vittima di un “crudo e funesto inganno”, ma pronta al sacrificio in nome dell'onestà e dell'affetto quasi filiale che nutre per Norma.

John Osborn, pur se penalizzato all'inizio da una gigionesca irruenza che non si sa perché la regia ha voluto imporgli (una specie di scherzetto a Flavio e un'incongrua arrampicata su un traliccio, che lo hanno reso simile più a Mefistofele che ad un condottiero romano), è cresciuto vocalmente nel proseguire della recita, riuscendo a ben sfruttare un centro di notevole rilievo: poco a suo agio nella cavatina e nella successiva cabaletta, ha trovato i momenti migliori nel duetto con Adalgisa e nelle scene decima e ultima del secondo atto, dove ha potuto sfruttare appieno quell'intenso afflato lirico che ne ha fatto un interprete di assoluto rilievo in altri, forse più consoni a lui, ruoli belliniani, quali Arturo ed Elvino.

Mariella Devia è stata una Norma di ottimo livello, soprattutto perché ha ancora una volta confermato doti tecniche pressoché perfette: bellissimi i filati, stupendi i trilli e tutti gli abbellimenti, senza difetti i passaggi di registro, tutte caratteristiche che le hanno permesso, cosa rara oggi per i cantanti, di conservare praticamente intatta la voce nonostante l'inesorabile progredire dell'età. Va anzi detto che la piena maturità della Devia ha reso ancor più icastico e significativo, e in linea con le originarie intenzioni belliniane, il contrasto-accordo tra le due voci sopranili, lasciando emergere da un lato la luminosità e la freschezza della Remigio, e dall'altro evitando le secche di timbri monocordi e pressoché simili, rischio scongiurato dalla possente e calda zona centrale della Devia.

Tuttavia, la grandezza tecnica di una cantante come la Devia non basta purtroppo a farne una Norma di riferimento e, pur delineando un personaggio di ottimo spessore, il soprano non è riuscito a rendere pienamente tutte quelle sfaccettature timbriche ed emotive di Norma delle quali abbiamo parlato prima: ben a suo agio nell'aspetto lirico, per intenderci nei duetti con Adalgisa, la Devia è risultata manchevole su quello che è il piano sacerdotale e amante di Norma. La sua Norma è stata solo Didone, ma non è riuscita a far emergere né Medea né tantomeno Alcesti: e qui non si parla di possibilità vocali, perché la Devia le avrebbe eccome, e ancor oggi, ma proprio di approfondimento psicologico del personaggio. Lo scultoreo recitativo che precede Casta Diva, per esempio, è stato praticamente sprecato, ignorando che lì Norma deve dominare un popolo intero con la sola sua forza sacrale: ne è risultato un canto privo di ieraticità, opaco, dove si intuiva la volontà di traghettare di tutta fretta verso Casta Diva, del resto abbastanza ben cantata, e soprattutto verso la temibile cabaletta, resa con tempi troppo lenti e con variazioni non esattamente appropriate. Se nel primo e secondo duetto con Adalgisa la Devia ha dato il meglio di se stessa, altrettanto non si può dire del terzetto del primo atto, giacché non è riuscita a far emergere tutta la rabbia di una Norma ferita, tradita e soprattutto disperata, che a quel punto deve quasi ruggire, dall'iniziale “Tremi tu? E per chi?” denso di tempesta, fino all'esplosione di “Vanne sì, mi lascia indegno”: la Devia invece si è attestata su un canto di ottimo livello, ma privo di quell'aggressività essenziale, tralasciando la cura dei recitativi, quasi in un giocare al risparmio come in “Sediziose voci”. E lo stesso potrebbe, e deve dirsi per la sequenza da “In mia mano alfin tu sei” sino all'angosciato “Io, rea, l'innocente accusar del fallo mio?” che segna l'ultimo passaggio psicologico di Norma, il definitivo morire di Medea per lasciar emergere Alcesti: l'ultimo, estremo combattimento interiore della sacerdotessa rimane al di qua del canto, i recitativi non si scandiscono pregnanti, il gesto non li accompagna, come invece li accompagnerà nell'ultimo, accorato appello al padre, dove ancora, e per l'ultima volta, il grande talento della Devia riuscirà ad emergere.

Giuliana Cutore

27/2/2017

Le foto del servizio sono di Franco Lannino.