RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le Gallie, città aperta

E Norma fu! Inutile negare che ogni volta che l'opera viene rappresentata su un palcoscenico siciliano l'attesa è sempre spasmodica, la partecipazione del pubblico ai limiti del fervore calcistico, l'entusiasmo pronto ad esplodere in manifestazioni di segno opposto. Programmato per la fine della prima parte della stagione lirica, prima della pausa estiva, il capolavoro belliniano era uno degli spettacoli più attesi del cartellone del Teatro Massimo di Palermo, in una città che ha avuto il privilegio di ascoltare, nel corso di quasi due secoli, Caroline Ungher e Francilla Pixis, Giuseppina Brambilla e Teresa De Giuli-Borsi, Virginia Damerini e Giannina Russ, Ester Mazzoleni e Gina Cigna, Maria Caniglia e Anita Cerquetti, fino alla mitica Callas, indimenticata protagonista delle celebrazioni belliniane del 1951. Insomma, a Palermo si viene incoronati nel ruolo di Norma, ed era comprensibile che le aspettative fossero elevatissime anche per l'edizione 2014. E allora si sgombri subito il campo («la sacra selva»?) dalle considerazioni di ordine musicale.

Perché la Norma ascoltata a Palermo non sarà forse la migliore oggi possibile, ma è stata sicuramente attendibile e a tratti notevole. Nel ruolo eponimo debuttava l'ungherese Csilla Boross, approdata al dramma lirico belliniano dopo un lungo rodaggio nel più impervio repertorio verdiano (è stata, tra l'altro, l'Abigaille di Riccardo Muti). Certo c'è un registro acuto ancora da perfezionare, per via di smagliature che incrinano la linea di canto e la fanno tendere pericolosamente al gridato. Ma la personalità travolgente e l'irreprensibile musicalità, la sicurezza con cui scandisce e scolpisce i recitativi (esemplare quello d'inizio del secondo atto), l'energia fin barbarica della coloratura di forza (nel Finale primo come nell'ultimo duetto con Pollione) sono elementi tali da farne, sin d'ora, un'interprete di riferimento. E per una volta si abbia il coraggio di applaudire senza riserve il trasognato attacco di «(Oh! Rimembranza!», finalmente intonato come un a parte trapunto nella magia del legato; o l'intero Finale ultimo, in cui «Qual cor tradisti, qual cor perdesti» non è più la concione pronunciata coram populo nel corso di una pubblica adunanza, ma l'ultimo, disperato appello d'amore all'amante fedifrago.

L'intera distribuzione, tuttavia, le fa da corona in maniera autorevole, a cominciare dall'atletico, prestante Pollione di Aquiles Machado. Che certo difetta sotto il profilo squisitamente belcantista, perché inquadra il ruolo secondo una prospettiva maschia e stentorea, sostenuta con ottimo controllo dei fiati e della linea melodica. Una felice sorpresa è l'Adalgisa di Annalisa Stroppa, interprete fine e misuratissima per l'eccellente mimesi vocale e psicologica con cui tratteggia il ruolo, poetico supporto nei due esemplari duetti con Norma. Marco Spotti incarna un Oroveso nobile e intenso, evitando atteggiamenti ieratici che non gli appartengono, mentre merita una menzione particolare il risonante Flavio di Francesco Parrino, accanto alla partecipe Clotilde di Patrizia Gentile.

Sul podio, Will Humburg suda le proverbiali settantasette camicie – in realtà sono almeno due, una per atto – perché il gesto è fin troppo scattante e impetuoso, e sin dalla Sinfonia d'apertura produce un suono compatto e massiccio, clangori che certo esaltano – ma allo stesso tempo appesantiscono – le coloriture marziali delle scene di massa. È una Norma barbarica e corrusca, dai vibranti scarti dinamici, quella che tratteggia il direttore tedesco, e per questo appare di una teatralità di forte, straripante impatto. Il palcoscenico lo segue ed anzi ne risulta correttamente, saldamente inquadrato, così come la compagine corale, istruita con esiti alterni (soprattutto per la sezione maschile) da Piero Monti. E proprio questa attenzione alla dimensione teatrale della drammaturgia belliniana è la chiave di volta per comprendere un allestimento, che ha suscitato le ire del pubblico.

Proveniente dall'Opera di Stoccarda, dove era stato presentato per la prima volta nel 2002, lo spettacolo recava la firma registica di Jossi Wieler e Sergio Morabito, uno dei più discussi sodalizi artistici presenti sui maggiori palcoscenici europei, con una predilezione per il repertorio belliniano confermata dieci anni più tardi da una Sonnambula , documentata anche in video, grazie alla quale i due artisti sono stati insigniti del titolo di “registi dell'anno” dai colleghi dell'autorevole testata tedesca “Opernwelt”. Nel caso di Norma , per chi si aspettava lune piene, ramose querce e spuntoni aguzzi di paesaggi romantici la delusione non poteva essere più cocente; ma per chi desiderava ritrovare nel dramma lirico belliniano un teatro capace di parlare al pubblico contemporaneo la rivelazione è risultata folgorante.

Fedeli alla missione del Regietheater tedesco, Wieler e Morabito fondano la loro lettura dell'opera su un Konzept fedelmente recepito dalla bella scena di Anna Viebrock: non più l'antica Gallia al tempo degli antichi Romani, ma la Francia degli anni Quaranta, quella occupata della Repubblica di Vichy; non più la foresta d'Irminsul e i suoi dintorni, ma la navata di una chiesa, covo della resistenza contro gli invasori stranieri. Viebrock adotta una virtuosistica prospettiva per angolo – alla maniera delle scenografie barocche italiane dei Galli Bibiena – e sposta l'asse prospettico: il proscenio rappresenta ad un tempo l'abside della chiesa e l'annessa sagrestia, che coincide con la dimora di Norma, mentre sul fondo si sviluppa in profondità il resto dell'edificio, separato da una cancellata bassa.

Certo è una Norma che disturba: perché Pollione, collaborazionista infiltrato tra i partigiani, sta nascosto sotto i banchi dei fedeli, spiandone le mosse, e poi è costretto ad attaccare la sua perigliosa cabaletta in bilico sulla cancellata che dà accesso all'abside; perché Norma canta la sua celeberrima cavatina di sortita al chiarore dei neon, indossando la casula dorata dei sacerdoti della chiesa cattolica, e miete il vischio che fiorisce dai resti dal cadavere di Irminsul, non più dio ma vittima delle persecuzioni imbalsamato su una barella; e perché durante la cabaletta qualcuno scopre la palla di un bambino e la usa per giocare con gli astanti. L'elenco potrebbe continuare.

Ma è proprio la palla, trovata per caso, ad aprire la strada per capire una regia minutamente costruita. Per capire le ragioni di questa Norma perennemente in nero, profilo dai tratti corvini alla Anna Magnani, donna contro, madre coraggio pronta ad affrontare gli incerti della guerra. Per capire una maternità occultata agli occhi del mondo, con due figli che, appena possibile, sgusciano fuori dalla sagrestia dove sono reclusi e, per l'appunto, giocano con una palla colorata, labile confine tra una dimensione privata ed una sfera pubblica ormai inconciliabili. Per capire un triangolo in cui il sentimento sembra essere sfuggito di mano e la ragione vaga tra i ricordi un passato lontano e le urgenze di un presente tragico, in un singolare, inestricabile intreccio che deflagra tra le scabre, spoglie pareti in cemento armato del luogo di culto. Per capire una guerra tra i sessi ed i sensi, le origini del conflitto tra una società patriarcale e un nuovo assetto istituzionale, capace di assegnare un nuovo ruolo anche alla donna.

E allora si comprende perché Norma maledice Pollione, scagliandogli contro le scarpe e mettendo in valigia gli abiti nascosti, unica testimonianza della loro relazione; perché i fucili siano custoditi sotto terra ma pronti per l'uso, unico strumento per ritrovare la dignità perduta; perché non sia più necessario impugnare la mazza di un gong, ma sia sufficiente suonare la sirena per avvertire del pericolo imminente. E soprattutto si comprende perché Norma vada a morire da sola, dopo quel «Son io!» che non è più confessione del tradimento della religione avita, ma coraggiosa denuncia dell'amore proibito con un nemico della patria.

Dietro le porte smerigliate della sagrestia, sulla quale campeggia la scritta “Vietato fumare”, le sagome dei bambini, destinati a chissà quali rappresaglie, diventano terribile memento sulle atrocità della guerra e delle lotte fratricide. Forse Norma non è esattamente questo: ma se è anche questo, conferma di essere capolavoro capace di sfidare il tempo, grande momento di teatro, prima ancora che esausto serbatoio di melodie da sgranare al chiaror della notte.

Giuseppe Montemagno

7/7/2014

Le foto del servizio sono di Franco Lannino Studio Camera.