RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Innocenza e utopia, innocenza è utopia.

Che magnifico “imbroglio” Le nozze di Figaro di Mozart.

È l'utopia dell'innocenza. Tutti la vogliono, nessuno la possiede né la possiederà mai. Dal Conte di Almaviva (se volessimo applicare il nomen omen, diremmo che di vivo non ha soltanto l'anima) colpevole di volersi godere, per l'ultima volta, lo jus primae noctis – alla sua potenziale, desideratissima “vittima” Susanna, lei per prima, “casta inceste” e non certo per le tragiche ragioni d'Ifigenia ma in quanto, lei per prima, vezzosa tessitrice di raggiri e rivalse passando per un'attempata Marcellina con velleità di promessa sposa e un Cherubino che è tutto fuorché modello d'angelica astinenza.

Innocenza e utopia, innocenza è utopia.

Dio solo sa (forse) quale immenso, misterioso duende di saggezza e di “anziana” sapienza ardesse nell'eterno fanciullo di Salisburgo, matto assai più della folle journée della prima opera della trilogia italiana che fu anche la prima vera e veramente importante opera buffa della storia. Del resto fu proprio lui, Amadeus, a chiedere a Lorenzo Da Ponte il libretto, nel 1786 (come attestato dallo stesso poeta) né crediamo sia solo congettura che il motivo risiedesse non certo nelle implicazioni politico-rivoluzionarie di Beaumarchais ma nella configurazione erotica della vicenda in sé. Perciò con il “diabolico” abate egli fece di queste Nozze un indissolubile matrimonio tra moderna antropologia ed arte musicale irraggiungibile.

E a ciò, in fondo, rende giustizia - anche se tutto è perfettibile - l'edizione del Festival di Salisburgo 2016 (che in realtà la riprende dal fortunato calendario dell'anno scorso) giacché, nonostante le regìe di Sven-Erich Bechtolf si servano di lenti d'ingrandimento che s'allargano spesso, troppo spesso, forse, su vignettismo di consumo, su gag facili e facilone, talvolta reiterate fino allo sfinimento, ebbene in questa sede, per fortuna, le stesse lenti puntano piuttosto ai caratteri, a caratterizzazioni e non a caricature.

La scena (Alex Eales) su due piani ad effetto casa di bambola serve la macchina teatrale e serve alla macchina teatrale giacché da giocattolo finisce con l'essere “gioco” nella teatralissima accezione che sappiamo e più che mai in questo contesto. Gioco di parlare e d'agire, giocare in luogo di suonare, specialmente.

È senza dubbio la rivoluzione mozartiana che espugna la Bastiglia della Musica, quella in grado di concepire arie capaci non solo di far poesia ma di raccontare l'azione. Basti pensare alla Sinfonia che si sprigiona dalla “buca” della Haus für Mozart: prende a narrare di una giornata frenetica attraverso un tempo vivacissimo dimostrando già come, a quella velocità, sia possibile creare una bellezza che di solito impiega più spazio per esprimersi.

E di ciò si fanno saggi, pacifici “giacobini” i Wiener Philarmoniker, da un canto, diretti con accortezza da manuale da Dan Ettinger, e dall'altra, il Wiener Staatsoperchoir guidato da Ernst Raffelsberger.

L'ambientazione segnata essenzialmente dai costumi (Mark Bouman) gioca d'incroci temporali e, alla lunga, sembra farla da padrone certo stile da primo dopoguerra alla James Ivory.

Se, a primo acchito, è il Conte d'Almaviva a configurarsi come una sorta di Ur-Don Giovanni, quanto meno nella linea di canto (qui è Luca Pisaroni, denominatore comune della trilogia Mozart-Da Ponte al Festival di Salisburgo, infatti in Don Giovanni è Leporello ma il suo Almaviva è assai più misurato e felicemente parco di controscene e gigionerie), in verità è Cherubino – innamorato non di una sola donna ma del complesso eterno femminino, fosse la Contessa, Susanna, Barbarina o persino Marcellina – ad essere una sorta di ritratto di Don Juan da giovane. Ne veste i panni il giovane, straordinario mezzosoprano russo Margarita Gritskova, vincitrice, tra le altre cose, al concorso internazionale Pavarotti. C'era sempre lei nell'edizione dello scorso anno, non più, oggi, invece, l'intensa, solida Martina Jankovà nella parte di Susanna ma Anna Prohaska che al ruolo dona eguale dedizione di “cantattrice” con risultati buoni ma non esaltanti. Anett Fritsch, facies da trentenne fuori dal palcoscenico, nel ruolo della Contessa (che Beaumarchais vorrebbe addirittura poco più che ventenne) appare come teneramente ingrigita dalle prodezze del Conte, più attempata della sua età non già per maturità interpretativa (quella verrà, se vorrà) ma perché un tantino ingessata nella postura, benché sostenuta da buona prestazione vocale. Fluido, vocalmente corposo, di semplice ma convincente gestica teatrale è Adam Plachetka cioè Figaro e intorno a lui bene s'avvicendano in incontri/scontri Ann Murray (Marcellina), Carlos Chausson (Bartolo), Paul Schweinester (Basilio), Franz Supper (Don Curzio), Christina Gansch (Barbarina), Erik Anstine (Antonio).

È comunque grazie alla Compagnia, tutta, di appropriato controllo ed ottima compostezza espressiva che – a parte il dirompente, coinvolgente finale del II atto che scenograficamente sembra operare una sorta di close-up “allargando”, della fila di camere del primo, solo la stanza da letto della Contessa – lo spettacolo riesce a restituire, esaltandoli, gli “assieme” finalmente in grado di dipanare l'azione. Fenomeno, questo, che all'epoca era prerogativa solo dei recitativi.

Scienza, sensibilità, seduzione: è la possibile triade per un altrettanto possibile “motto” mozartiano. Solo che, a differenza di quell'altra, questa è rivoluzione che dura.

Carmelita Celi

20/8/2016