RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Morire… ma perché?

Quando comincia il mucchio? Era questa la domanda che un filosofo scettico del IV secolo a.C., Eubulide di Mileto, usava contro gli avversari, Aristotele in testa, per dimostrare l'impossibilità di distinguere il vero dal falso. L'argomento è semplicissimo: considerando dei granelli di grano, se il primo non costituisce un mucchio, il secondo e il terzo nemmeno, e così via, quando comincia il mucchio? Detto più in generale: qual è il granello che segna il momento in cui si può veridicamente parlare di mucchio? Detto eticamente: quanto deve rubare un uomo perché sia lecito ammazzarlo di botte? E in generale: esiste un momento in cui è lecito che un uomo che ha commesso un atto illecito possa essere ucciso?

Questa fondamentale domanda adombrava in tutto il suo svolgersi l'intenso monologo Storia di un oblio, di Laurent Mauvignier, in scena per la rassegna Altrove 2018, a cura del Teatro Stabile di Catania, alla Chiesa di San Nicolò l'Arena dal 19 giugno al 1° luglio: l'originale regia, curata da Roberto Andò, prevedeva che gli spettatori entrassero, lungo un percorso obbligato, nella sacrestia della chiesa, disponendosi su due file concentriche attorno a un tavolo anatomico, sul quale giaceva un sacco per cadaveri, accanto a cui sedeva raggomitolata una forma umana, mentre altri oggetti, racchiusi in sacchetti di plastica come quelli in uso presso la polizia per raccogliere le prove, contribuivano a delimitare lo spazio scenico dal pubblico. Una luce fredda, amplificata dai cupi legni della sacrestia, concorreva a creare un ambiente gelido, asettico, sul quale si sarebbe sviluppato il lungo monologo affidato a Vincenzo Pirrotta, dolorosa rievocazione, da parte del fratello dell'ucciso, della catena di avvenimenti che ha condotto un povero diavolo, reo di aver rubato una minuscola lattina di birra in un supermercato, a essere massacrato di botte da quattro vigilantes, e non per la lattina, ma per il semplice gusto di farlo, per divertirsi a scorgere la sofferenza e il terrore di un essere umano assolutamente impotente.

Tutto il lavoro sembrava risuonare di una sola domanda: perché? Perché uccidere un uomo senza un perché? Ed esiste un perché che renda lecito uccidere un uomo? Si può morire per una lattina di birra, per dirla col giudice istruttore che condannerà i vigilantes? Per una no, certo, ma allora per quante lattine di birra si può morire? Per due, per tre, per una cassa, per un vagone? Oppure quel poveraccio è morto perché aveva un'aria da sfigato che ha eccitato gli istinti sadici dei vigilantes? E allora, quando comincia l'aria da sfigato?

Eppure il mucchio stavolta non segnava solo il confine tra vero e falso, ma tra la vita e la morte: lo stesso argomento del resto viene utilizzato, oggi come ieri, nel definire una guerra sanguinosa o meno a partire dal numero dei morti, come se dieci morti valessero meno di cento, o cento meno di mille, dimenticando che quel che conta non è il numero dei morti, ma la morte stessa.

Questi interrogativi suscitava nel suo proseguire il monologo, condotto da un Vincenzo Pirrotta giunto ormai al culmine delle possibilità espressive di un attore, in grado di lasciar trascorrere la voce dall'urlo al sussurro in un lampo, con una dizione sempre chiarissima, capace di recitare con la voce e col corpo insieme, in un crescendo di coinvolgimento sempre più angoscioso, fino allo svelamento dell'identità dell'ucciso, inutile a ben vedere giacché di tali morti insensate è costellato il mondo, e nella vita di tutti i giorni sempre a opera di chi dovrebbe far tutelare la legge, identità che, almeno in Italia, ha ormai un volto-simbolo, quello di Stefano Cucchi, massacrato da poliziotti sadici e lasciato morire da medici conniventi. E la foto di Cucchi pestato fino all'inverosimile Pirrotta ha mostrato agli spettatori, a uno a uno, compiendo un lungo giro attraverso lo spazio scenico, lasciando che il dolore cedesse il posto alla vergogna di trovarsi in uno Stato dove orrori del genere possono ancora accadere a onta di ogni sbandierata democrazia e tutela dei diritti del cittadino.

Giuliana Cutore

24/6/2018