RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Lohengrin torna al Costanzi

dopo cinquanta anni di assenza

Rinunciando ai barocchismi che sovente affliggono le sue impostazioni registiche, nel caso di Lohengrin Damiano Michieletto opta per uno spettacolo visionario ma sobrio, sorretto dalla drammaturgia essenziale di Mattia Palma, basato su alcune simbologie portanti. In primo luogo l'uovo, con la sua pluralità semantica: dalle ascendenze mistiche e carnali di Piero della Francesca alle suggestioni metafisiche di Salvador Dalì. L'occasione inaugurale era particolarmente importante, visto che il titolo mancava al Costanzi dal lontano 1975, e considerando la proverbiale e inspiegabile idiosincrasia dell'ente lirico romano verso il teatro wagneriano. Parlavamo di simboli, dalla vasca presente sin dal preludio, nella quale la perfida Ortrud vorrebbe affogare Elsa e che invece fa emergere dalle sue acque il piccolo Gottfried, alle colate materiche argentate e plumbee. Nel primo atto Elsa avanza in precario equilibrio, le scarpe in mano e i piedi nudi, apparendo più disorientata che in estasi come vorrebbe il dettato librettistico. La menzogna, che la vorrebbe assassina del suo stesso fratello per brama di potere, rischia di farle perdere il lume della ragione. Lohengrin non fa il suo ingresso in maniera trionfalistica, ma portando una bara bianca, simbolo del piccolo che si crede perduto, all'interno della quale la figlia del duca di Brabante scorgerà le piume del cigno miracoloso mai mostrato sulla scena. Toccante il momento in cui l'eroe letteralmente tira fuori Elsa dalla melma nella quale la calunnia rischia di sprofondarla mentre il Coro, grande protagonista dell'opera e ottimamente preparato da Ciro Visco, canta del fascino mirabile che promana dalla sua persona. Nella scena del duello fra l'accusatore Telramund e il campione celeste, Michieletto evita di mostrare qualsiasi immagine di lotta ma sposta l'attenzione su una prova simbolica. Una materia liquida scende dall'alto, ustionando il mentitore e coprendo del suo fluido benefico il portatore della verità. Nel secondo atto l'uovo nero chiuso nella teca di vetro appare come un simbolo arcano che ricorda il monolite di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, una forza estranea che polarizza le arti pagane di Ortrud. Nella conclusione del secondo atto una miriade di uova cala dall'alto, ad additare il mistero. Le luci, magistralmente orchestrate da Alessandro Carletti, dipingono cromatismi inediti d'oro e d'argento, e di volta in volta stagliano le ombre dei personaggi sulla parete lignea posta nel fondo, conferendogli il giusto rilievo. Le scene di Paolo Fantin supportano perfettamente l'impostazione registica. Nel preludio che apre il terzo atto, con licenza poetica, Michieletto mostra il suicidio di Telramund, mentre in realtà dovrebbe essere ucciso da Lohengrin successivamente. La macchia di sangue che resta sulla parete sporca il sublime duetto d'amore con il dubbio che porterà alla catastrofe finale, un po' come nel Rheingold l'uccisione di Fasolt da parte di Fafner ci fa comprendere che l'ingresso degli Dei nel Walhalla ha perso ogni carattere trionfale per aprire invece le porte all'inevitabile declino. Una volta infranto il giuramento, Elsa viene colpita da cecità. Invano fruga all'interno dell'uovo, che metaforicamente rappresenta il dubbio e la verità; verità che verrà rivelata da Lohengrin stesso nel finale, quando ormai è costretto ad abbandonare l'amore terreno per tornare alla sua dimora celeste. Il dissidio fra umano e divino non viene risolto. Lohengrin è l'eroe destinato alla solitudine, venerato ma mai amato, come l'artista stesso, costantemente estraneo e incompreso.

Così come Michieletto, anche Michele Mariotti era al suo primo cimento wagneriano. Una prova che, vogliamo dirlo subito, appare superata a pieni voti. La sua è una lettura di notevole sensibilità, irrorata da una luminosità intrinseca. La partitura viene scandagliata nelle sue linee portanti, senza perdere di vista l'articolazione narrativa. Oscura senza mai risultare pesante la resa della coppia diabolica, intessuta di profonda malinconia quella dei due protagonisti. Mariotti appare poi attento alla resa vocale, riuscendo a non prevaricare gli interpreti con volumi sonori eccessivi. Questo anche in relazione alle caratteristiche dei cantanti a sua disposizione. Dmitry Korchak, anch'egli al debutto in Wagner, non ha il peso specifico degli Heldentenor di un tempo. Detto ciò, appare particolarmente coraggiosa la sua scelta di affrontare il ruolo di Lohengrin venendo da un repertorio ben più leggero, decisione non azzardata visto il ragguardevole risultato raggiunto. Korchak è un Lohengrin tutto giocato sul versante lirico, dal fraseggio fluido e dall'accento nobile, mai in difficoltà, dolente nella sua superna solitudine. A voler essere pignoli qualche mezzavoce non è forse del tutto sostenuta dal fiato, mentre alcuni acuti, mai forzati, non hanno l'argentea lucentezza richiesta dalla parte; detto ciò, la sua è una prova di tutto rilievo. Il cantante dovrà però ragionare riguardo l'impatto di tale repertorio sul suo mezzo vocale. Ricordo le affermazioni di Nicolai Gedda, il quale affrontando proprio Lohengrin aveva notato un ispessimento del timbro, con conseguenze di difficile valutazione a lunga scadenza. Accanto a Korchak l'Elsa vulnerabile ma non esangue di Jennifer Holloway, in bilico fra sanità e follia. La voce è importante, ben proiettata, ma non esente da qualche forzatura nei momenti più accesi. Ekaterina Gubanova mostra grande temperamento nel ruolo dell'oscura antagonista, adoratrice delle divinità pagane. La sua Ortrud è insinuante come Jago nell'Otello e perfida come Lady Macbeth. Riguardo Tómas Tómasson, avevamo già avuto modo di ascoltarlo nel medesimo ruolo nel Lohengrin scaligero di alcuni anni fa, dove ci aveva lasciato un'impressione piuttosto negativa. L'organizzazione vocale è approssimativa, così come la tecnica, ma il suo è comunque un Telramund da ricordare per la forza attoriale ed espressiva. Lo spettacolo lo porta in scena con una misera canottiera e una stampella a puntellarne l'individualità ferita. A proposito dei costumi di Carla Teti, improntati a una modernità atemporale, qualcosa di esteticamente più appropriato si sarebbe potuto confezionare per i due protagonisti. Più apprezzabile Ortrud, in tailleur nero che ben ne definisce il carattere malefico. Clive Bayley è un Re vocalmente piuttosto affaticato e di spessore esiguo, comunque in linea con l'impostazione registica che lo vuole fragile e claudicante. Ottimo, infine, l'araldo di Andrei Bondarenko, dall'emissione sempre a posto e dalla vocalità generosa. Trionfo in un teatro colmo in ogni ordine di posti, in occasione della prima replica del 30 novembre.

Riccardo Cenci

5/12/2025

Le foto del servizio sono di Fabrizio Sansoni – Teatro dell'Opera di Roma.