Trasumanare all'incontrario

Benché frutto d'un compositore poco più che ventenne, La Resurrezione già presenta la caratteristica principale degli oratorî sacri di Händel: oltrepassare gli schematismi vetero o neotestamentari, per concentrarsi in una sorta di trasumanazione all'incontrario sulla pittura musicale di concrete passioni umane. In questa prospettiva non c'è nulla di scandaloso che Ilaria Lanzino, portando in scena a Roma quest'oratorio haendeliano nato appunto per la città eterna, lo abbia radicalmente desacralizzato: anzi, è una scelta che sottende un'esegesi consapevole e sensibile. Cosa ha concepito infatti questa giovane regista italiana, che ennesimo caso di cervello in fuga dopo una lunga serie di spettacoli in Germania è finalmente riuscita a debuttare nel proprio paese? Ha trasformato i tre giorni che intercorrono tra la crocifissione e resurrezione di Cristo nell'elaborazione del lutto da parte d'una famiglia di oggi: un bambino morto (struggente l'orsacchiotto sulla bara) e le diversissime reazioni del papà, della mamma, della nonna.
Con un libretto le cui figure principali sono San Giovanni, Maria Maddalena e Maria di Cleofa, sembrerebbe una trasposizione dove è difficile far quadrare i conti. Tuttavia la Lanzino trasla i personaggi dal sacro di ieri al laico di oggi con inoppugnabile consequenzialità. Dunque, il discepolo prediletto, ferreo nel credere alla resurrezione del Figlio di Dio, diventa un padre di famiglia corroso dal dolore ma sorretto dalla fede: una luce, questa, che come nel testo versificato da Carlo Sigismondo Capece per Händel non scorge invece Maria Maddalena, trasformata qui in una madre accecata dalla disperazione della perdita, ostile a ogni speranza, ferocemente incredula davanti al mistero della morte. Mentre la medietas della posizione di Maria di Cleofa dà voce all'equilibrio della vecchiaia (credere sì, illudersi no), ovvero della nonna del bimbo.
Lo spettacolo porta il segno d'una cifra visiva programmaticamente antiestetica, talvolta disarmonica negli abbinamenti cromatici (scene di Dirk Becker, costumi di Annette Braun): in questo l'imprinting tedesco della Lanzino è molto avvertibile, così come tedesca è la sua propensione per una regia più indeformabilmente concettuale che plasticamente teatrale. Semmai si nota un gusto per metabolizzare, senza fermarsi alla banalità della citazione, certi modelli cinematografici: a cominciare dal Lars von Trier di Antichrist, altra vicenda di coppia con un bambino morto; e film che, guarda caso, si apriva su un'aria di Händel. Mentre ad aumentare il tasso di suggestione provvede la location: i resti, nell'area archeologica del Foro Romano, della basilica di Massenzio, che quest'anno si aggiunge alle Terme di Caracalla come cornice delle produzioni estive dell'Opera di Roma.
Paracinematografico è anche il talento nell'evocare flashback (l'ospedale pediatrico con quel clown che allieta i bambini malati, diventando la sola nota davvero cristiana del contesto) e dipanare all'interno della medesima aria un succedere di tempi e spazi diversi. Ma soprattutto emerge un profilo crudamente terreno della coppia protagonista: la moglie / Maria Maddalena conserva, del personaggio evangelico, un pedigree prematrimoniale di donna facile e tenta di stordire il dolore prima con l'alcol, poi attraverso un ultimo, fallimentare tentativo di sesso con il coniuge; mentre il marito / San Giovanni, a sua volta, non esiterà a rifarsi una vita prendendosi un'altra donna. Più problematica invece la rimodulazione dei due personaggi allegorici, ossia l'Angelo e Lucifero. Perso ogni riferimento al Bene e al Male, diventano dei commentatori-partigiani: l'uno inneggiante al mistero della fede, l'altro nichilista a oltranza. Il primo con tanto di ali, tuttavia assai trash, e addobbato come una rockstar; l'altro teppista metropolitano con un debole per il travestitismo. Insomma da quell'angelo caduto che d'altronde sarebbe un borderline (le piaghe sulla schiena non evocano solo le ali strappate, ma pure compulsivi giochi sadomasochistici): e per un'emarginata come Maddalena diventa lui, non il marito, l'unica possibile sponda.
Tipologie vocali e tipologie espressive, nella rilettura di questo spettacolo, interagiscono dunque in un'alchimia ora fertilmente ossimorica ora problematicamente stridente; e va a onore di tutti gli interpreti al di là delle singole rese canore l'essersi calati con gran compenetrazione nel disegno registico, oltre al fatto di aver dovuto subire un'amplificazione (inevitabile nello spazio open air di Massenzio) nell'insieme ben bilanciata, ma che qualcosa in termini timbrici depaupera comunque. George Petrou alla guida dell'Orchestra nazionale barocca dei Conservatori li ha oculatamente sostenuti, imprimendo direzionalità drammatica e vivido passo teatrale, ma soprattutto rinunciando a preoccupazioni filologiche fuor di luogo all'aperto e in una messinscena come questa. In tale contesto Ana Maria Labin plasma una mater dolorosa e senza fede di grande compiutezza stilistica nelle arie, ma capace anche di un urlo espressionista mozzafiato. Meno riuscita, nel suo squarcio gridato, la nonna di Teresa Iervolino, il cui colore mezzosopranile caldo e avvolgente è mortificato dalla microfonazione più degli altri. Tuttavia si tratta pur sempre d'una belcantista affidabilissima, e la sua aria Augelletti, ruscelletti perde il sapore squisito ma prevedibilmente bucolico della pagina per diventare un momento di grande interiorità.
A sua volta, l'ottima Sara Blanch sembra subire qualche scarto fonico alle prese con i vocalizzi di giubilo dell'Angelo: vuoi perché il suo belcanto di elezione resta quello rossiniano e della colorature francese, vuoi perché i microfoni non equilibrano appieno certi scatti in zona acuta; e probabilmente pure l'anello debole del cast Giorgio Caoduro, che della parte di Lucifero non domina né la coloratura né i salti di registro sarebbe risultato meglio, almeno sotto il profilo timbrico-coloristico, in uno spazio al chiuso. Ad apparire avvantaggiata dall'amplificazione è invece la voce più usurata: Charles Workman, il cui strumento si è fatto ormai assai secco e, dunque, non ha ragione di temere la metallicità dei microfoni. In ogni caso, la resa artistica è ottima. Rimasto ai margini della belcanto renaissance , il tenore americano ha saputo reinventarsi, con duttilità e sagacia, una carriera drammatico-espressionista; e questo marito incrollabile nella fede ma poco empatico verso le debolezze umane è davvero, da parte sua, una grande interpretazione. Più bravo che ai vecchi tempi.
Paolo Patrizi
8/7/2025
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.