RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Bayreuth il Parsifal ieratico

di Semyon Bychkov

Un lunghissimo processo intellettuale accompagna la gestazione di Parsifal, estremo e peculiare capolavoro di Richard Wagner destinato per volontà del compositore stesso esclusivamente al tempio di Bayreuth, che il re Ludwig II di Baviera edificò per lui condividendone in pieno gli slanci utopici. Ci troviamo di fronte al caso unico di un'opera pensata per un particolare spazio scenico, che solo in questo luogo pare trovare la sua naturale collocazione. Una sorta di cerimoniale, da qui la definizione di Bühnenweihfestspiel, che richiede da parte dello spettatore una concentrazione assoluta, una dedizione che esula dalle consuete categorie melodrammatiche. La trasformazione delle fonti originarie in un qualcosa di strettamente personale richiederebbe, per essere descritta, numerosi volumi. Basti dire che Parsifal è il poema della redenzione ottenuta tramite la rinuncia. Il mondo, inteso con Schopenhauer come desiderio insoddisfatto, può essere salvato solo da un giovane impulsivo e inconsapevole, destinato a divenire un eroe di intatta purezza. L'accusa mossa da Nietzsche al compositore di essersi inginocchiato ai piedi della croce perde di significato se pensiamo che Wagner, pur attingendo a simbologie cristiane, conserva le pulsioni magiche dell'opera di Wolfram von Eschenbach, principale fonte testuale.

Atmosfere presenti anche nella declinazione del dramma pensata dal regista Uwe Eric Laufenberg per Bayreuth nel 2016, e riproposta quest'anno sulla sacra collina. Pur trasponendo il mito nell'epoca attuale, in un tempio colmo di profughi durante le guerre mediorientali che ancora insanguinano quella parte di mondo, il significato rimane intatto. Ad apertura di sipario un raggio di luce penetra dall'alto, illuminando un uomo che riposa stremato su una branda, prefigurando la conclusiva catarsi. “Du siehst, mein Sohn, zum raum wird hier die Zeit” (“Tu vedi, figlio mio, spazio qui diventa il tempo”). Con queste parole misteriose Gurnemanz, nella parte conclusiva del primo atto, introduce Parsifal nella sala del Graal. Laufenberg, durante l'intermezzo strumentale, mostra immagini cosmiche (le proiezioni sono di Gérard Naziri) per poi restringere gradualmente lo sguardo sul pianeta terra e sullo specifico luogo nel quale situa l'azione. Realtà e mito si mescolano, spazio e tempo si mostrano agli occhi dello spettatore in una visione totalizzante. Il regista riesce a costruire uno spettacolo coerente, facendoci riflettere sui drammi del nostro tempo senza per questo svilire i tratti salienti del pensiero wagneriano.

Il secondo atto attinge ampiamente ad atmosfere orientaleggianti da mille e una notte. Fra coloratissimi arabeschi e zampilli d'acqua, Parsifal subisce la tentazione delle fanciulle fiore. La loro bellezza appare ancora più abbacinante in quanto, fino a un attimo prima, era celata dai veli e dalle barriere più intransigenti della cultura musulmana.

Nel terzo atto, durante il Karfreitagszauber, compaiono figure nude investite da una pioggia che simboleggia la rinascita, quasi la riconquista del paradiso perduto. Come in un quadro fiammingo rinascimentale, scorgiamo una visione dell'Eden primigenio. Nel finale rappresentanti delle tre grandi religioni monoteistiche si ritrovano a celebrare una rinnovata armonia. Se Parsifal è espressione della religione dell'arte, intesa in senso ottocentesco, la verità stessa può essere espressa solo in forma estetica. Utopia e fede, quest'ultima intesa in senso filosofico, si intrecciano in uno spettacolo di grande pregnanza morale ed emotiva.

Di questa visione Bychkov è veicolo eccellente. Il direttore russo sembra aver sposato il concetto espresso da Sir John Barbirolli riguardo le sinfonie mahleriane, ovvero che in queste ci sono molte vette ma un solo climax, che il direttore deve scoprire per comprendere a pieno la partitura. Così Bychkov, durante l'intero arco del dramma, conduce il discorso musicale con estrema chiarezza e leggibilità, prediligendo i valori cantabili, senza perdere mai di vista l'impianto narrativo complessivo, la maestosa architettura edificata da Wagner. Se il passaggio nel tempio del Graal del primo atto appare spettacolare ma ancora misurato, è nella scena speculare del terzo che Bychkov sembra aver individuato la corrispondenza fra gesto teatrale e espressione della verità. Qui c'è davvero tutto il pensiero del compositore, mai esteriore ed estremamente pregnante. La catarsi conclusiva non può che giovarsi di una tale magistrale introduzione.

Riguardo il cast, Günther Groissböck è un Gurnemanz frastagliato e comunicativo, nobile e paterno, come si conviene a un personaggio che sostanzialmente svolge un ruolo di narratore. Elena Pankratova è una ragguardevole Kundry, vocalmente ben centrata, anche se una maggiore varietà di accenti avrebbe giovato alla resa di una figura di straordinaria complessità, selvaggia e tormentata, costantemente avvolta dall'aura del mistero. Thomas J. Mayer incarna un Amfortas lacerato e sfinito dalla pressione dei cavalieri del Graal riguardo il compimento del proprio ufficio, al quale vorrebbe sottrarsi. Nel lamento del primo atto si fa valere non tanto per le doti di fraseggiatore, quando piuttosto per l'espressione brutale della sofferenza. Una crudeltà, del resto, voluta dallo stesso Wagner; Amfortas, come Tristan, vorrebbe morire, ma è costretto a rimanere in vita. Il regista asseconda il carattere violento del rito. Amfortas viene letteralmente esposto come Cristo sulla croce, il sangue che gronda dal suo corpo martoriato e sofferente. L'iconografia più cruda della cristianità, e penso ad esempio alle statue lignee delle chiese spagnole, viene impiegata in maniera tanto scoperta quanto oscena. Sufficientemente robusto e demoniaco il Klingsor di Derek Welton, apprezzabile il Titurel di Tobias Kehrer. Infine Parsifal. Andreas Schager è certamente più a suo agio in questo ruolo che in quello di Tristan, impari alle sue doti vocali. Pur senza possedere gli accenti angelicati ed eterei di altri interpreti (penso a Klaus Florian Vogt, al quale è subentrato nel ruolo dallo scorso anno) riesce a rendere in maniera convincente il passaggio dall'innocenza all'esperienza del protagonista. In compenso la voce è ben più solida e corposa rispetto al suo predecessore e gli acuti, anche se non sempre ben timbrati, ci sono tutti. Superfluo evidenziare in conclusione la splendida prova dell'orchestra e del coro del Festival di Bayreuth.

Riccardo Cenci

28/8/2018

Le foto del servizio sono del Bayreuther Festspiele/Enrico Nawrath.