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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Gualtiero e Vincenzo compagni di sventura a San Gallo

Il Pirata di Bellini al Theater Sankt Gallen

Il Pirata di Vincenzo Bellini (Milano, Teatro alla Scala, 27 ottobre 1827), dato in questa stagione al Theater Sankt Gallen, ha come archetipo la cupa e “scarmigliata” tragedia Bertram or The Castle of Saint-Aldobrand (Londra 1816) del vicario anglicano dublinese Charles Robert Maturin (1782-1824), che a titolo postumo diventò prozio materno di Oscar Wilde. Tramite la mediazione del “mélodrame” Bertram ou Le Pirate di Raymond (Parigi 1822), Felice Romani confezionò per Bellini il più composto, protoromantico libretto del Pirata. Va notato che l'ambientazione siciliana si ritrova nella fonte irlandese in cui l'eroina deuteragonista si chiama già Imogene. Ma anche San Gallo, guarda caso, rivendica radici celtiche, poiché dall'eremitaggio del monaco pellegrino irlandese Gallus (VII secolo), in prossimità del Lago di Costanza (Bodensee), trassero poi origine la potente abbazia e la città di San Gallo, che per lunghi secoli irradiarono spiritualità e cultura in Svizzera e al di là. Quanto al Reverendo Maturin, più vasta e duratura fama gli procacciò il romanzo Melmoth the Wanderer (1820), apoteosi del genere dell'orrore gotico allora in auge e tuttora di avvincente lettura.

Il Pirata belliniano costituì il primo grande capolavoro, emblematico, del non ancora ventiseienne musicista catanese e lo proiettò imperiosamente nell'agone del teatro d'opera. I più clamorosi esiti dei melodrammi che seguirono non ne attenuarono il fulgore.

All'alzarsi del sipario Gualtiero e i compagni scampano per miracolo al naufragio del loro veliero sulle coste tirreniche della Sicilia (tra Messina e Palermo). Siamo nella seconda metà del XIII secolo, quando, dopo la morte in battaglia dello sconfitto re svevo Manfredi, gli invasori angioini si sono impossessati dell'isola con il nefasto incoraggiamento del Papato. Benché il quadro storico fissato dal libretto possa sembrare quasi un pretesto per l' altrove ricercato dal melodramma, il riferimento è preciso. Non c'è stato però scampo al “naufragio” sulla scena del teatro sangallese - moderna sala di dimensioni medie e di sobria razionale eleganza – di fronte a un pubblico plaudente, al quale è stata proposta, nello stravolgimento più perverso, un'opera sconosciuta ai più. In realtà, per dirlo senza peli sulla lingua, quello perpetrato dal regista Ben Baur, a cui si deve inoltre la scenografia, è un raccapricciante attentato!

La scena unica è una sala con portici ai due lati e ampia arcata sul fondo, che, con continui alzarsi e abbassarsi del sipario, rappresenta di volta in volta con arredi vari ambienti esterni e interni diversi. L'epoca approssimativa – a cui rimandano i costumi di Uta Meenen – è il dopoguerra in un territorio della Sicilia saldamente in mano a un onnipotente capomafia subdolo e spietato: “geniale” metamorfosi del cavalleresco villain Enrico, Duca di Caldora, nel peggiore, trucido Compar Alfio. Quanto al suo antagonista, il ghibellino Gualtiero, conte di Montalto, divenuto pirata, non è più che un povero diavolo senza seguaci a parte il miserando Itulbo. Per sua sventura, l'ex conte si era innamorato contraccambiato della donna, Imogene, che il “tiranno” gli ha sottratto. Sangue a secchiate, sopraffazioni all'ingrosso, esecuzioni sommarie e cadaveri non ci sono risparmiati, con una sorta di accomodante tolleranza da parte del pavido parroco, largo di benedizioni, che corrisponde a Goffredo, il solitario, un tempo precettore del conte.

L'azione, brutalmente dominata dalla visione registica – che, scandita con l'accetta, sforbicia disinvoltamente recitativi e ariosi – scorre in parallelo con la musica, condotta questa con mano sicura da Pietro Rizzo secondato dalla diligente Sinfonieorchester St. Gallen, ma, come in geometria, le parallele non sono destinate a incontrarsi. Le sublimi melodie belliniane, malinconiche, elegiache, lancinanti, irresistibili si perdono, ahimè, nella sala. L'essenza del dramma latita. Che invenzione, bravo, bravo, Baur trasforma, sul suo letto di Procuste, la scena dello scampato naufragio in un prologo, in realtà un epilogo, poiché diventa il funerale del figlioletto di Imogene, ucciso poi dalla madre nell'unhappy ending, con il coro che, come nel resto dell'opera, canta cavoli a merenda, cioè il contrario di quello in cui è impegnato. Segue l'ouverture (il che ha coerenza e funziona nell' Hans Heiling di Marschner, non qui). Sorvolando sul confusionario svolgimento della vicenda, ci si avvicina alla conclusione. L'incontro furtivo tra Gualtiero e Imogene nella camera da letto di quest'ultima è sorpreso da Ernesto, che viene sfidato a duello dall'altro. Segue un duello rusticano fuori scena, al quale Ernesto sopravvive ma abbondantemente sanguinante. Il non meno insanguinato Gualtiero ha giusto il tempo di cantare l'aria e cabaletta del secondo atto prima della sua esecuzione sommaria.

Mi sono chiesto se e fino a che punto i cantanti fossero convinti della validità dell' “aggiornamento” dei ruoli rispettivi.

Il soprano Joyce El-Khoury, probabilmente non in perfetta forma, tendeva allo stridulo nelle note alte mentre denunciava un grave sforzato. Le riuscivano meglio i pianissimi, ma l'espressività del suo personaggio era andata a farsi benedire. Ha giocato le sue carte migliori nell'aria del finale ultimo, così come il Gualtiero del tenore Arthur Espiritu, che possiede voce robusta e flessibile e timbro interessante ma non li mette purtroppo in evidenza, rende a ‘Tu vedrai la sventurata' miglior servizio che a ‘Nel furor delle tempeste'. Se lo costringono a essere un Turiddu dozzinale, come potrebbe dimostrarsi un Gualtiero credibile? Quanto al baritono Marco Caria (Ernesto), dov'era finito l'elegante Lord Enrico della Lucia di Amsterdam di alcuni anni fa? Un po' meno rozzo e trucido, è vero, nel duetto del secondo atto con Imogene, ‘Ah! Lo vedo per sempre m'è tolta'. Discreto il basso Martin Summer (Goffredo) e giusto da ricordare il mezzo soprano Tatjana Schneider (Adele) e il tenore Riccardo Botta (Itulbo), comprimari “accorciati”.

Sopravviverà il melodramma agli scempi di queste regie “salvifiche”? Perché prendersi il disturbo di andare a teatro quando anche le opere più rare si possono frequentare grazie ai CD e DVD e al cinema o seguire su Youtube?

Ma il Teatro di San Gallo è audace nelle scelte di titoli rari: Loreley di Catalani, Edgar di Puccini, sì però…

Fulvio Stefano Lo Presti

12/6/2018

Le foto del servizio sono di Iko Freese.