RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Pensare barocco

Nell'annosa controversia se – alle prese con un'opera plurisecolare – sia lo spettatore a doversi rapportare all'autore o, al contrario, sia l'autore che debba venir filtrato dalla sensibilità contemporanea, il “Festival di arte barocca” di Ceský Krumlov si schiera inequivocabilmente per la prima ipotesi. Centosettanta chilometri a sud di Praga, non lontana dal confine austriaco, questa cittadina medievale boema è sede, ormai da diciotto anni, d'una rassegna dove lo Zeitgeist è bussola inequivocabile: il repertorio operistico italiano a cavallo tra seconda metà del Seicento e primi decenni del Settecento viene restituito senza mediazioni attualizzanti, all'insegna di uno spirito del tempo reso possibile dalla particolarissima location.

Ultimato nel 1766, il Teatro Barocco del castello cittadino è infatti una struttura rimasta intatta nel suo impianto scenotecnico (fondali dipinti, argani, congegni per gli “effetti speciali” dell'epoca): un laboratorio in legno gestito da una squadra di tecnici qualificatissimi, tanto prezioso quanto fragile – a cominciare dal rischio d'incendio – e dunque utilizzabili per spettacoli solo tre giorni l'anno. In quelle settantadue ore, però, il viaggio nel tempo è assicurato: i macchinari scenici barocchi, le quinte e gli sfondi perfettamente conservati, il sipario anch'esso di pittura d'epoca, gli orchestrali imparruccati, le candele ai leggii, tutto contribuisce a catapultare il pubblico in un universo parallelo, dove Vivaldi e Caldara, Draghi e Scarlatti rivivono “così come erano”.

Alessandro Scarlatti è stato appunto, nel tricentenario dalla morte, al centro del programma di quest'anno. Partitura su cui si erano sedimentati secoli di oblio, La guerriera costante (1683) è il prodotto d'uno Scarlatti ventitreenne, ancora nel periodo di apprendistato romano prima di partire per quei lidi napoletani risolutivi alla sua evoluzione linguistica: una “commedia in musica” secondo il frontespizio del libretto e, dunque, un intrigo sentimentale con lieto fine statutario, non privo d'innesti comici, che il libretto di Flavio Orsini – da nobiluomo dilettante di cose teatrali preferì nascondersi dietro lo pseudonimo anagrammato di Filosinavro – amministra con versificazione arguta e sceneggiatura obbediente alle iterazioni dell'epoca. Tutto ruota intorno all'archetipico espediente della donna che si traveste da uomo – qui addirittura da guerriero – per mettersi sulle tracce dell'amato bene scomparso; e ne deriva, nella cornice d'una Lisbona tutta di fantasia, un poker d'affetti: la donna-armigero; la regina (presso le cui schiere si arruola la protagonista) che s'innamora dell'efebico soldatino; l'ex amante sparito, un po' perché geloso e un po' perché fedifrago, reclutatosi ovviamente nel medesimo esercito; un consigliere di corte trafficone, ma che, ricongiuntisi i due amanti, potrà coronare il suo sogno d'amore per la regina. Sullo sfondo, i battibecchi dei personaggi di rango inferiore (il servo buffo e il paggetto lezioso), cui spetterà parte non indifferente nello scioglimento dell'intrigo.

Zuzana Vrbová impagina uno spettacolo che non mira tanto a una regia – concetto inesistente ai tempi di Scarlatti – in senso stretto, quanto a un lavoro capillare sulla gestualità barocca. Unendo il talento di teatrante allo spirito di ricercatrice, imprime ai personaggi una stilizzazione delle posture, una plasticità della mimica facciale, un accrescimento nell'ampiezza dei movimenti di mani e braccia (speculare a quell'amplificazione delle emozioni cui mira la retorica “degli affetti”) che ricalcano l'effetto visivo di statue e dipinti barocchi: solo ai due personaggi comici viene riservato un certo realismo gestuale, gravido anch'esso di rimandi pittorici. Il resto è affidato alle macchine sceniche (una zampillante fontana dipinta azionata a mano), ai fulminei cambiamenti a vista (dei numerosi fondali del teatro questo spettacolo ne utilizza tre: reggia, salone e giardini), ai costumi ricostruiti da figurini d'epoca. Né si può tacere dei contributi fondamentali del “trucco e parrucco” a cura di Zuzana Wittmannová e Irena Krížová, nonché delle coreografie – ciascun finale dei tre atti ha un ballo – di Veronika Rehbergerová, sagaci nel far convivere danza e scherma.

Mente del festival, concertatore al cembalo, Ondrej Macek ricava sonorità insospettabili da un organico – il suo ensemble Hof Musici – ridotto qui a soli sette elementi (violini, violoncello da spalla, violoncello, tiorba e chitarra barocca): il che è tanto più rimarchevole se si considera che La guerriera costante appartiene ancora a uno Scarlatti dove la preminenza del solista lascia in secondo piano l'accompagnamento strumentale. Per il resto, Macek si rivela anche ottimo narratore, imprimendo passo spedito a un'opera che fatica a decollare – nel primo atto il compositore sembra più che altro voler prendere le misure – e che pure quando entra nel vivo dell'azione privilegia i “momenti sospesi” delle arie (viene risolta con veloci recitativi la scena in cui la protagonista, non riconosciuta, si ritrova faccia a faccia con l'amato bene, e solo in sottofinale si giungerà a un duetto). Arie di paragone (Se nel mar di vasto impero, su cui si apre l'opera) e arie “agitate”, arie oltremodo composite (Nuovo Tantalo son io) e altre di secca brevità (di pertinenza del basso buffo) si alternano dunque senza sosta nelle tre ore di spettacolo, sempre perfettamente centrate da cantanti e strumentisti. Il tutto sotto il segno d'un diapason a 389, debitamente filologico anche se forse un po' basso per la tenuta delle voci gravi.

Contraddistinto da un'eccellente dizione italiana che lasciava intuire un grosso lavoro alle spalle, il cast affiancava voci da musica antica, dunque di emissione tendenzialmente fissa (vivificate però da un timbro nobile per natura, come quella di Kamila Zborilová nelle vesti della regina), ad altre più tradizionalmente operistiche, caratterizzate da maggior ricchezza di vibrazioni: era il caso della protagonista Dora Rubart-Pavlíková, il cui signorile patetismo è stato la carta vincente nel momento in cui Scarlatti spicca il volo e anticipa i suoi traguardi futuri, ossia l'aria del secondo atto Una speme lusinghiera. Il tenore Tomáš Lajtkep rende bene le ambiguità di un amoroso in realtà alquanto ondivago, mentre Petr Svoboda – benché il materiale vocale non sia privilegiato e lasci più il sentore d'un baritenore che d'un bassobaritono – imprime fraseggio incisivo e penetrante nella grande aria del consigliere nel primo atto. Ivo Michl è un buffo anticaricaturale e perfino vagamente malinconico, mentre Eva Benett plasma un mercuriale paggio en travesti, ritagliandosi il suo successo personale in una “aria dei fiori” che figurerebbe bene in un'antologia seicentesca.

Si è andati in scena per tre giorni consecutivi – gli ultimi dell'estate – con il ripieno di due concerti (in differenti luoghi della città) e d'un convegno internazionale. Nonché, al termine della seconda serata, d'una spettacolare installazione di “fuochi d'artificio barocchi” (al suono però di musiche mozartiane) nei giardini del castello, per solennizzare l'addio alla stagione estiva.

P aolo Patrizi

28/9/2025

Le foto del servizio sono di Libor Svacek.