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Scacco “matto” a Bergamo 
Per l'edizione 2025 del Donizetti Opera Festival, un fortunato ripescaggio vede in scena, a distanza di (soli) dodici anni e proprio nello stesso Teatro Donizetti di Bergamo, Il furioso nell'isola di San Domingo, scritto nell'estate-inverno del 1832 e presentato al Teatro Valle di Roma il 2 gennaio 1833. Il successo fu tale che nel giro di qualche mese lo troviamo allestito anche a Milano e Torino, probabilmente grazie a copie pirata (strano quindi che poi il Furioso sia caduto nel dimenticatoio, per essere ripreso in tempi moderni solo nel 1958 a Siena): vicende editoriali complesse, di cui dà conto nel volume di sala Eleonora Di Cintio, ricercatrice in Storia della musica all'Istituto storico germanico di Roma, che cura l'edizione critica qui eseguita per la prima volta, approntata per l'Edizione Nazionale delle Opere di Donizetti, con in appendice anche le varianti d'autore. La vicenda, all'epoca di Ferretti e Donizetti non nuova né sulle scene del teatro di prosa, né su quelle del teatro in musica, si ispira a una storia collaterale del Don Chisciotte di Cervantes, che si snoda, alternata ad altre trame, dal capitolo XXIII al XXXVI del primo volume (1605); dalla Sierra Morena l'ambientazione viene traslata all'isola di Hispaniola, al tempo chiamata San Domingo dal nome della capitale e tornata d'attualità dopo le rivolte che portarono all'indipendenza di Haiti nel 1804 e nel 1821.
L'operazione registica che ne fa Manuel Renga è condotta con delicatezza e con tocco nostalgico, che senza stravolgere l'impianto drammaturgico, lo vivifica con intuizioni pratiche, intelligenti e di buon gusto. L'assunto di base non è propriamente originale: un anziano Cardenio, ormai in casa di riposo, assistito da un'infermiera e visitato dalla sua Eleonora, invecchiata anch'essa, rivive i ricordi del passato, ovvero l'opera stessa, da una parte attraverso una vecchia macchina fotografica, di quelle con soffietto e treppiede – già durante il Preludio fotografa se stesso da giovane in abito da sposo –, dall'altra con lo stesso mimo di Cardenio anziano – Andrea de Manicor – che si aggira per la scena come dentro le sue memorie: ed è come trovarsi al tempo stesso dentro e fuori dalla sua mente.
Le scena unica di Aurelio Colombo, che assistito da Valeria Vago cura anche i costumi, ambienta l'opera in una radura di un ambiente boschivo, reso un po' naïf e sognante dal fondale concavo dipinto a palme, felci, scimmiette e fenicotteri, su cui il ritaglio di alcune aperture permette ai personaggi di affacciarsi. Cappellini di paglia e gonne a fiori per Marcella e le sue amiche, comparse che aiutano lo svolgimento della recita, e la tenuta da campagna di Bartolomeo, sul marrone- beige, col bastone da passeggio a rimpiazzare il frustino, caratterizzano i coloni padre e figlia in fogge ottocentesche più ricreate che citate; un elegante abito bianco si addice a Eleonora, mentre molto più lavorato è il costume di Fernando, che col suo ampio mantello blu e la divisa bianca esprime il suo rango superiore, anche a livello morale, secondo un'estetica ancora vetero-operistica. Il furioso Cardenio cambia d'abito, e passa da un completo nocciola, opportunamente lacero e logoro, a uno smoking a fine spettacolo. Kaidamà è il più originale; mentre gli altri personaggi vestono costumi grosso modo “prevedibili” per questo spettacolo, Kaidamà è, nelle parole di Renga stesso, «il buffo che porta meraviglia, ma nello stesso tempo […] profondamente tragico. […] Io mi sono ispirato a Emmett Kelly, il creatore della figura del clown triste: ha il compito di divertire ma ha una vena malinconica dentro di sé, ha l'espressione triste, con la bocca rivolta verso il basso e mezza faccia nera. […]Ha la bombetta, un frac logoro, è una specie di corvo: è tragico e comico allo stesso tempo, è molto contemporaneo».
 C'è quindi la voglia di narrare, restando fedele a Donizetti, ma c'è anche la voglia di comunicare qualcosa in più. La pazzia, curiosamente per una volta declinata al maschile in un mondo, quello lirico, che vede principalmente le donne pazze per amore, è, dice Bartolomeo parafrasato, un albero del quale puoi tagliare i rami, ma di cui restano le radici. Renga, con l'assistente Sara Dho, parte da qui per narrare una pazzia che continua negli anni, fin nella casa di riposo; da qui rivive come ricordo, innescata da una serie di oggetti, come il modellino di veliero che Cardenio trova nell'armadio e che si collega alla tempesta e al naufragio con cui Eleonora approda sull'isola. Significativa è poi la sospensione di tutti questi oggetti, compresa la bicicletta con cui a inizio spettacolo il vecchio Cardenio scorrazza per la stanza, appesi sopra le teste dei cantanti a suggerire il vorticare delle idee, o, per analogia, una sospensione della psiche – il tutto potenziato dalla suggestiva tecnica luministica di Emanuele Agliati, che concorre non poco alla riuscita dello spettacolo – quando il protagonista incontra moglie e fratello. Ancor più significativa è la scomposizione del fondale. Dietro di esso, verso la fine della recita, compaiono impalcature a vista, mentre due grandi occhi dipinti fissano un punto lontano: nel momento di massima tensione dell'opera, il doppio omicidio di Cardenio ed Eleonora, sventato poi all'ultimo, con Eleonora che rivolge verso di sé la pistola (c'è qualcosa di Von Kleist in tutto questo…), la mente di Cardenio non regge e si frantuma, si aliena, forse sublima o forse ha rimosso: e il fenomeno trova realizzazione scenica in questo modo ellittico, allusivo, non didascalico ma accessibile.
Un lavoro registico insomma ben riuscito; così come ben riuscito è il lavoro di Alessandro Palumbo con l'Orchestra Donizetti Opera, calibrato e attento dal punto di vista della concertazione, della timbrica sonora e dell'articolazione delle frasi, vivificate da uno stacco di tempi adeguati all'azione. In un'opera come questa, di genere semiserio, l'attenta bacchetta di Palumbo si districa fra i vari registri, dirimendone le peculiarità e valorizzando ora quello comico, spesso gravitante attorno a Kaidamà, ora quello patetico, vicino a Cardenio, ora quello da opera seria vecchio stampo, ravvisabile nella coppia Eleonora-Fernando. Ancora una volta una sfida vinta da parte di un direttore giovane ma dalle idee già molto ben chiare, che a inizio secondo atto viene vivamente acclamato dal pubblico, giusto riconoscimento per una direzione vispa e croccante – basti citare la raffinatezza direttoriale del Finale primo. Pregevoli i recitativi riccamente ornati al cembalo da Hana Lee, storica collaboratrice delle produzioni bergamasche, come pregevole la prestazione del Coro dell'Accademia Teatro alla Scala, diretto da Salvo Sgrò.
Quanto al cast, esso si allieta della presenza di voci valide e dotate ciascuna di una sua personalità. Valerio Morelli è un convincente Bartolomeo, sonoro e dalle inflessioni e dal timbro quasi baritonale. Giulia Mazzola riveste di brio e frizzantezza la sua Marcella in grazia di uno strumento smaltato, fresco e guizzante.
Nel filone dei tenori “rossiniani” si inserisce Santiago Ballerini, che dona al suo Fernando corposità vocale e stile. Il suo canto è aggraziato e nobile, pervaso da un afflato continuamente lirico-belcantistico, avvalorato da un timbro chiaro e guidato da un'intima e duttile musicalità. Belle le sfumature, fluide le agilità, spontanei e non forzati gli acuti; insomma, un Fernando completo.
Valutazione ampiamente positiva anche per Nino Machaidze, una valente Eleonora forte di una voce spessa, rotonda, il cui volume non trascurabile va di pari passo con setosità e morbidezza in tutti i registri, nonché con una tinta drammatica che non sfigurerebbe in un contesto di opera seria. Acuti pieni e solidi (soltanto i gravi talvolta un poco carenti) si accompagnano a un canto fiorito elegante e ben portato.
 Bruno Taddia compartisce con Paolo Bordogna, il “furioso” di questo Furioso, la palma di mattatore della serata. Si è già accennato al carattere duplice, tragicomico, di Kaidamà, che, specie per l'epoca, materializzava sulle scene il frutto peggiore del colonialismo europeo: lo schiavismo – di cui decenni dopo, in ambito statunitense, si ricorderà ancora Mark Twain, inserendo in un romanzo apparentemente comico, Un americano alla corte di re Artù, stralci di pesante condanna sociale proprio di questo fenomeno. Taddia risolve il suo Kaidamà sfaccettandone il carattere. Se di primo acchito permane il lato buffo, agevolato anche dal geniale libretto di Ferretti, uno sguardo più attento lo pone all'interno dell'opera come motore involontario dell'ultima svolta della storia, il ricorso alle pistole (le due «bestie focose», come vennero chiamate in una parodia napoletana del 1832), e all'esterno come commentatore super partes. Attento a mantenere questo equilibrio per tutta la recita, Taddia si avvale, oltre che di un'attorialità spontanea (caricaturata e caricaturale ma mai inopportuna), di un canto ben scolpito, tratteggiato, con declamazione chiara, comprensibile e sapida, una vis comica che si congiunge a potenzialità fin drammatiche, nel senso ampio del termine, nel duetto con Cardenio.
Cardenio, per l'appunto. Paolo Bordogna fornisce a questo iconico personaggio tutta la bravura e l'esperienza di cui dispone, tanto dal punto di vista scenico, dove gli accessi d'ira della sua nubivaga psiche prendono forma in una gestualità bizzosa o in atteggiamenti trasognati, quanto dal punto di vista canoro: il suo Cardenio si avvantaggia non solo del bel timbro brunito e pastoso, del canto morbido e della voce calda di cui dispone, ma soprattutto dell'uso che ne fa, nell'accorto sfruttamento delle articolazioni, delle dinamiche, del cesello del vocabolo, dei colori, screziati al pari dei molteplici e variegati atteggiamenti espressivi, in un camaleontismo canoro che ha del prodigioso, dovendo passare dal patetico al drammatico, dal larmoyant al comico e dovendo portare in scena un tema, scottante allora come oggi, dell'adulterio – le «posizioni drammatiche», come le chiamava Verdi, sono in fondo le stesse che troveremo con ben altro spicco nello Stiffelio: un marito tradito che perdona la moglie pentita. Ed è forse in questo suo dare tanto a questo personaggio, addirittura troppo, che, doppiata appena la boa del primo atto e avviato il secondo, nel cruciale duetto con Eleonora, la voce lo tradisce e lo costringe a lasciare il palcoscenico; la sera di venerdì 21 novembre 2025, alla seconda delle tre recite previste, le luci del Donizetti si alzano e il Teatro resta sotto scacco per alcuni minuti, prima che si possa procedere – cosa non scontata – col prosieguo della recita. Qualche fiato e qualche intonazione stavano in effetti venendo meno, ma non si sarebbe creduto necessario sospendere la recita. Il pubblico capisce, pazienta, incoraggia con applausi e ammira la ricomparsa in scena di Bordogna, che torna a cantare inizialmente, e comprensibilmente, in difesa, come “in sordina”; man mano che i mezzi canori si consolidano, però, molla gli ormeggi della prudenza per navigare nel mare della sicurezza: ed è con sicurezza, quasi con una punta di condivisibile orgoglio, che certi acuti suonano poderosi più di prima e che sull'onda di questo entusiasmo il lieto fine sopraggiunge ancor più gradito tanto per la recita, quanto per Bordogna, salutato, come tutto il resto del cast, come Palumbo e come il Coro, da convinti e prolungati applausi.
Christian Speranza
29/11/2025
Le foto del servizio sono di Photo Studio U.V.
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