RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A Parma si gabba con stile

È un Falstaff che convince, pur se attualizzato, quello proposto dal Teatro Regio di Parma nell'ambito del XXV Festival Verdi. Un Falstaff che si inserisce nella tematica di questa edizione, intesa a esplorare i rapporti tra Verdi e Shakespeare. E quale migliore occasione per inanellare la triade di opere ispirate al Bardo, Macbeth, Otello e, per l'appunto, Falstaff, coronate dal Requiem che rimane un'istituzione sempreverde della kermesse?

È questo in sintesi il programma del Festival Verdi 2025; perlomeno del suo zoccolo duro, e a tacere delle molte iniziative collaterali, tra cui la rassegna di concerti e non solo, riuniti sotto il titolo di Ramificazioni. Ne riparleremo. E se, da un lato, di un altro Macbeth forse non si sentiva il bisogno, a distanza ravvicinata, è pur vero che, dall'altro, quello di quest'anno, al Teatro Verdi di Busseto, è la ripresa della prima versione, che debuttò alla Pergola di Firenze il 14/03/1847 e che fa il paio con quello dell'anno scorso, l'esatta riproduzione di ciò che andò in scena al Théâtre Lyrique di Parigi il 19/04/1865, in francese e con tanto di ballabili. Sarebbe interessante, prossimamente, così per stare in tema, confrontare l'Otello “italiano”, quello scaligero del 1887, con quello “francese”, ballabili e piccole varianti incluse, del 1894.

Di Falstaff invece ce n'è uno solo. E basta e avanza, a considerarne l'inventiva, l'euforica vitalità, musicale e letteraria, laddove il libretto di Boito si fa già autentica musicalità, allitterante, cantilenante, vero co-working di un affiatamento mai prima raggiunto, né più ripetuto, almeno nella prassi compositiva verdiana.

Ed è questa inesausta vitalità la cifra distintiva della produzione messa in scena al Teatro Regio di Parma nelle date del 3, 16 e 19 ottobre 2025, di cui si recensisce l'ultima. Una produzione – partiamo dal golfo mistico– che ha visto la Filarmonica Arturo Toscanini diretta da Michele Spotti. Talentuoso direttore della nuova leva, classe 1993, trentadue anni appena, ha già dalla sua un palmarès invidiabile – e in un momento così discusso della vita musicale italiana dove il curriculum è balzato prepotentemente in primo piano (e per fortuna) quale meritocratico metro di giudizio (e chi vuole legga pure tra le righe), questo depone in toto a suo favore. Un calibrato rapporto tra buca e palcoscenico, una concertazione analitica ma non fredda, attenta a dar risalto alle voci e assieme a valorizzare la proteiforme orchestrazione verdiana, qui più che mai tracotante di timbri insoliti anche per lo stesso Verdi, sono le qualità che si enucleano al termine della serata, pienamente riuscita e sancita da sonori e prolungati applausi, nonché da un Regio pienissimo anche alla terza recita. Del pari, ciò è stato possibile grazie a un affiatato e solido cast, punteggiato di nomi importanti della lirica contemporanea.

Mattatore della serata è stato il Falstaff di Misha Kiria. L'adeguata fisicità, modificata ovviamente per sapiente trucco e parrucco, ben si sposa al personaggio, al quale presta non solo una verve attoriale coinvolgente, ben calata nella parte che qui, per volere registico, è quella di un uomo di mezza età piuttosto trasandato, un po' rozzo, ma anche una dizione corretta e intellegibile, una voce di tutto rispetto, corposa e salda anche negli acuti, che resta comunicativa pur utilizzando una vasta gamma di registri espressivi, dall'irato al galante, restando ossimoricamente credibile pur se caricaturale, “vero” pur se “finto”: che è poi una delle chiavi di lettura del Falstaff, che all'ultima scena si rivolge direttamente allo spettatore mettendo in luce proprio questo aspetto, in una morale esplicitata che non si vedeva più dai tempi del Don Giovanni. E sebbene indulga con un po' troppa frequenza, nell'accendersi della recita, a quel “raschiato” di gola che vuole ruggire anziché cantare, con quell'espressionismo che in chiave interpretativa potrebbe raccogliere lo Zeitgeist del cosiddetto verismo (Cavalleria rusticana è del 1890, Falstaff del 1893), glielo si perdona in grazia di una resa complessiva più che soddisfacente.

La grana drammatica sfoggiata in altri ruoli da Roberta Mantegna è il sostrato per lei su cui costruire una Alice Ford convincente, cui presta tutte le risorse del suo strumento, e ciò dimostra come il talento sia anche quello di asservire il mestiere a ruoli che esulino dai soliti in cui ci si aspetti di sentir cantare una determinata voce: la sua comare è brillante, vocalmente solida, piena e lucente, con guizzi di humour confermati da mimica e movenze spontanee nel mettere in scena il prototipo della casalinga annoiata che, per sfizio e gusto del proibito, tende le note burle pur senza aver mai l'idea di tradire davvero. E non da meno è l'altro soprano della produzione, la Nannetta di Giuliana Gianfaldoni. In questo caso, la sua natura lirica si attaglia a perfezione con le richieste verdiane, dove usignoleggia con grazia nel suo bel timbro puro, traslucido, con lunghi fiati e memorabili filati su «luna» e non solo, morbidi e tenuti con omogeneità, veramente tessuti Sul fil d'un soffio etesio (pagina che peraltro interpreta benissimo). Contraltare giovanile delle più mature Alice e Meg, Nannetta impersona con Fenton l'amore nascente, anche un po' sensuale, ma anche la spontaneità e l'ingenuità. Caratteristiche che Gianfaldoni replica sulla scena in maniera credibile, ben fatta, a riconferma di come questo “tipo” sia il più congeniale per lei – ho memoria di sue riuscitissime Gilde, ad esempio.

Il versante femminile si completa con la Meg Page della giovane e capace Caterina Piva, al solito una garanzia per la duttilità e la fascinosa setosità della voce, e la Mrs. Quickly di Teresa Iervolino, con le apprezzabili screziature fumé del registro grave, piuttosto corposo, e la bella prestazione scenica.

Le bruniture e il velluto di Alessandro Luongo sfociano in un Ford che fraseggia con stile, con precisione di accenti, e che punta a evidenziare i lati più collerici del personaggio; ma il rischio di scadere nella macchietta è sempre solo sfiorato e mai raggiunto: punto a favore per lui, soprattutto quando verso la fine il carattere subisce l'evoluzione di passare al più indulgente marito che comprende la realtà dei fatti: e diventa quindi meno “personaggio” e più “persona”.

Più voluminoso e bronzeo, stando nelle voci gravi maschili, il Pistola di Eugenio Di Lieto, che sarebbe interessante riascoltare in ruoli più articolati. A lui il merito di restituire con energia e intenzione uno dei servitori di Falstaff (che in Shakespeare più tardi sposerà nientemeno che… Mrs. Quickly! Lo si legge nell'Enrico V ).

Parlare dell'altro servitore, Bardolfo, dà il destro di confrontare tre vocalità tenorili qui piuttosto differenti. Quella di Roberto Covatta, per l'appunto Bardolfo, è agile, squillante, tersa, che corre e fa presa per la sala. Più rotonda, più ricca e sempre chiara, proiettata con efficacia e dotata di ammirevole elasticità e facilità in acuto quella di Dave Monaco, un provetto Fenton in grado di fare degnamente il paio con la Nannetta di Gianfaldoni grazie alle sue spiccate doti liriche, che si esplicitano in quel Bocca baciata di maliosa caratura financo un poco belcantistica. Meno sonora e meno espressiva, seppure corretta, quella di Gregory Bonfatti nel ruolo del Dottor Cajus. Si segnala infine il Coro del Teatro Regio di Parma, diretto da Martino Faggiani, che, se qui non ha un ruolo primario, ha saputo in ben altre occasioni far sentire di che cosa sia capace.

Alla riuscita dello spettacolo concorre la regia di Jacopo Spirei, con scene di Nikolaus Webern, costumi di Silvia Aymonino e luci di Giuseppe di Iorio, già presentato in prima assoluta qui al Regio di Parma nel 2017. Un Falstaff attualizzato, si diceva, ma convincente, laddove sempre più spesso le attualizzazioni sono occasioni per registi bisognosi di inscenare il proprio ego. Qui no. Attualizzare sembra voler dire per Spirei far rivivere lo spirito falstaffiano al giorno d'oggi, dimostrandone l'attualità e le ipocrisie sociali che lo circondano, vedi la relazione per convenienza che il padre di Nannetta vorrebbe per lei (nell'originale addirittura i pretendenti sono due, con l'aggiunta di Slender). È da apprezzare soprattutto il fatto che, pur attualizzando, non rinunci a mettere in scena restando coerente col libretto, talvolta con precisione millimetrica sulla parola detta (come quando le cameriere di Mrs. Ford spostano un divano). Siamo in un Regno Unito contemporaneo, e a dircelo è la grande bandiera inglese che accoglie lo spettatore sul palcoscenico entrando in teatro. La bandiera si solleva a mo' di sipario e sorprende Falstaff nella camera che affitta all'Osteria della Giarrettiera, una semplice stanza poco ammobiliata con interni in legno scuro e una pila di piatti sporchi a terra. È trasandato, si diceva: barba e capelli lunghi, non curati, qualche straccio bisunto, un portatile vecchio tipo che a un certo punto scaglia via, inservibile. I costumi delineano a colpo d'occhio stati sociali diversi, e diverse posizioni di pensiero. Ford è in completo e cravatta, da uomo d'affari; Fenton e Nannetta hanno un look più trasgressivo, da giovane “che non ci sta”, con Fenton in kilt di pelle nera e Nannetta fasciata in collant “alternativi”; ancor più malacconcio Pistola, con abiti che sembrano recuperati qua e là. Bardolfo se la cava con jeans e giubbotto di pelle nera. Le comari sono le più centrate, riflettendo coi loro abiti pastello molto english il loro status di borghesotte alle quali la stabilità economica dà loro l'estro di divertirsi, anche un po' crudelmente, a spese di un evidente spiantato come Falstaff (che poi nell' Enrico IV quest'ultimo fosse amico intimo del Principe di Galles e che quindi in qualche modo riuscisse a cavarsela sempre è un altro discorso; anche perché il Falstaff delle Merry Wives non è quello dell' Enrico IV : Harold Bloom, a proposito, relega questa commedia tra le meno riuscite di Shakespeare, al rango dei Due gentiluomini di Verona). Abiti da golf, livree da perfetti camerieri e impermeabili da ispettore Clouseau completano il variegato assetto di costumi.

Scene di una Windsor ordinaria e un po' anonima si contrappongono all'abitazione dei Ford, borghesissima e altolocata, col lettone in bella vista e il paravento in primo piano per il duetto di Fenton e Nannetta; aperta come una casa di bambole in modo da poter vedere contemporaneamente il dentro e il fuori, memore forse del quartetto del Rigoletto –, se ne nota la ricchezza di oggetti di scena, mai fuori luogo. Peccato soltanto per la scena del rovesciamento del Cavaliere nel Tamigi, un po' goffa, sullo sfondo. La magia si rivela alla fine, però, primo per la fantasia dei costumi, secondo per un suggestivo gioco di luci, che alla fine coinvolgono anche il lampadario del Regio che diviene la quercia di Herne. Interessante, a proposito di questo coinvolgimento del teatro nel set dell'opera, non nuovissimo ma sempre d'effetto, l'utilizzo della barcaccia di sinistra da cui le comari spiano l'arrivo di Falstaff nel parco di Windsor.

Con una bandiera si apriva, con una bandiera si chiude, questo Falstaff. Non con la stessa, però: con quella palestinese, che campisce quasi tutto il palcoscenico, scelta la cui appropriatezza ha diviso in qualche misura il pubblico, alla recita in oggetto non molto, in altre recite di altre opere in modo più netto. E sui saluti degli interpreti, accompagnati dagli ultimi di una lunga serie di convinti applausi, si chiude anche questa ultima recita dell'ultima opera di Verdi.

Christian Speranza

18/10/2025

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.