RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Scene da una convivenza

Anthony Neilson, classe 1967, scozzese, è un drammaturgo contemporaneo generalmente associato al teatro in-yer-face, termine coniato dal critico britannico Aleks Sierz per descrivere uno stile teatrale colloquiale, appunto in faccia, caratterizzato da una voluta assenza di introspezione e tutto volto all'enunciazione di parole, di brevi frasi che rimandano oggettivamente e in modo ossessivo al sesso, alla violenza, alla gergalità e alla metafora erotica: pur rifiutando di essere completamente assimilato a tale stile, a suo parere colpevole di respingere lo spettatore, Neilson ne mutua le tematiche crude e freddamente descrittive, appunto attraverso i dialoghi, per descrivere il disagio contemporaneo, coinvolgendo al tempo stesso l'uditorio con la totale abolizione della quarta parete e, almeno in The prudes, obbligando gli attori a presentarsi sulla scena mentre gli spettatori entrano in sala, annullando di fatto l'inizio canonico della pièce e la sacralità del sipario chiuso, il cui aprirsi a luci spente segna di fatto l'inizio della finzione drammatica.

Sì, perché quello che emerge prepotentemente da The Prudes, un atto unico del 2018, in scena al Teatro l'Istrione di Catania dal 7 al 9 febbraio nella traduzione di Natalia Di Giammarco, è la programmatica immersione dello spettatore in un mondo fatto di parole che alterano e mascherano la realtà, di gesti consueti, di infingimenti che svelano il profondo disagio esistenziale di una coppia di mezza età, disagio fatto di abusi di psicologismi, di frasi entrate nel linguaggio comune ma di fatto usate per creare una barriera nella comunicazione, in una spirale che svela come ciascuno di noi (forse pirandellianamente) indossi anche nei momenti più intimi una maschera di parole che cela non il volto, ma ciò che si vorrebbe urlare in faccia al partner, al genitore, al capufficio, alla società intera: un carcere di parole e di finzioni trite e ritrite, dove ciò che si è vissuto e si vive non ha più il significato reale, ma solo quello che la società, col suo bagaglio giustificatorio e rassicurante, impone all'individuo, impedendogli di fatto di esprimere se stesso se non attraverso le incrostazioni di un'universalmente accettata e socialmente accettata non comunicazione.

Il disagio sessuale che avvolge i protagonisti Jessica e James, conviventi che non riescono più ad avere rapporti sessuali da più di un anno e che hanno come ultima possibilità di salvare la loro relazione la necessità di consumare un amplesso sotto gli occhi del pubblico, consiglio evidentemente dato da un consulente matrimoniale, mira a un coinvolgimento totale del pubblico, un coinvolgimento ansioso, figlio della più canonica suspense, nelle cui pieghe sembra di leggere una satira dissacrante delle verbosità psicologiche e patinate di Scene da un matrimonio di Bergman. Quel che nel regista svedese è scavo, compiacimento quasi morboso della crisi di coppia, ricerca mentale delle origini del disagio, si svela in The prudes nella sua cruda realtà: all'origine e alla fine di tutto c'è il sesso, il cui affievolirsi, banalmente causato solo dall'abitudine e forse anche dall'età, segna il tramutarsi in altro di una relazione amorosa, al di là e nonostante tutti i marchingegni psicologici e farmacologici che la società e la cultura possano mettere in atto per spostare il problema dal piano puramente fisico a quello mentale.

Ed è anche su questo azzeramento psicologico che gioca il testo, che Carlotta Proietti e Gianluigi Fogacci hanno interpretato con grande classe attoriale e perfetta dizione, lasciando che fosse sempre il copione a parlare attraverso di loro, con una recitazione sobria e controllata, mai sopra le righe, sempre tesa alla tipizzazione dei personaggi attraverso le frequenti interrelazioni col pubblico: erano Jessica e James ma al tempo stesso i prototipi umani di individui che non riescono nemmeno per un istante ad andare al di là delle parole, che fingono anche con se stessi, in un gioco al massacro che non è solo con l'altro, ma con la propria reale umanità, col quel miscuglio di carne e mente di cui la società ha decretato, per mantenere in vita se stessa, che debba essere la mente, intesa come insieme di regole psicologiche di stampo più che perbenista, l'unica dominatrice.

La regia, dello stesso Fogacci, coadiuvata dalle musiche di Giovanni Mancini e dalle scene e dai costumi di Susanna Proietti, ha puntato sulla mimica e sulla gestualità, valorizzando al massimo le capacità dei due attori: mimica e gestualità spesso francamente ammiccanti (satira nella satira) alle commedie americane che affollano la filmografia contemporanea, e amplificanti quel clima di finzione nella finzione che se da un lato ha evitato, come nelle intenzioni di Neilson, il respingimento dello spettatore medio, dall'altro ha consentito al testo di emergere senza effetti distraenti in tutta la sua dissacratoria comicità.

Giuliana Cutore

9/2/2020