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Madrid

Grandi cantanti per I Puritani

Diana Damrau

Ciliegina sulla torta, abbiamo avuto anche la nuova edizione critica di Fabrizio della Seta (già sentita ad Amsterdam qualche anno fa), anche se con qualche modifica. I ruoli di Enrichetta e soprattuto di Arturo, ma anche quelli di Riccardo e di Elvira diventano più ricchi, con più sfumature; peccato che non ci sia anche il rondò finale del soprano, scritto per la Malibran, che ho sentito solo una volta, a Ginevra, visto che qui le interpreti c'erano. Certo che i rischi di un'azione drammatica ancora più debole – un problema sempre presente in questo titolo – sono maggiori, ma l'interesse dell'operazione vale la pena.

Fino a queste recite non avevo mai visto un teatro con il coraggio di proporre due compagnie per un'opera così difficile: trovare un quartetto d'importanza capace di riprendere i ruoli dei primi interpreti (Grisi, Rubini, Tamburini, Lablache, il ‘quartetto Puritani' appunto) è stato quasi sempre (o senza quasi) impossibile. Ebbene, il Real, nelle due serate del 6 e 7 luglio, anche se con dei distinguo, c'è riuscito, particolarmente nel caso del primo cast (luglio).

Ovviamente niente è perfetto nelle imprese umane. Se la messinscena per la regìa di Emilio Sagi era piuttosto banale – una presenza invadente delle comparse mentre il coro restava immobile, seduto o in piedi, un mucchio di lampadari che salivano o scendevano a seconda della gioia o della tristezza, costumi d'epoca ma scene ‘astratte' adatte un po' a tutto – ma così, è vero, risultava molto facile passare da un quadro all'altro, con in più una direzione dei cantanti che dipendeva soprattutto dalla personalità di ciascuno di loro, l'aspetto più discutibile o meno azzeccato veniva purtroppo della concertazione di Evelino Pidò – una vera sorpresa visto che ha una reputazione, ben guadagnata, di specialista nel repertorio belcantista: in più di un momento chiassosa, di tempi veloci (a parte qualche ‘ritardando' sparso qua e là), sottomessa al metronomo, più che evidente, oimè, all' inizio del secondo atto, proprio nel migliore dei cori – che hanno tendenza a essere lunghi e monotoni, ma si sa che il libretto del Pepoli ha dato fastidio perfino a Bellini, tanto per cominciare – ‘Piangon le ciglia', ma anche nell'aria del basso che segue, ‘Cinta di fiori' e soprattutto colpevole in più di una occasione di coprire le voci (nessuna poteva cantare Wagner – né era il loro compito) e per fortuna il Real non è una sala enorme.

Il coro, ben preparato da Andrés Máspero, dopo qualche momento d'incertezza all'inizio, cantava molto bene ma anch'esso quasi sempre forte, vuoi per indicazione del maestro vuoi per l'atteggiamento molto comprensibile a non venire coperto – come capitava anche a qualche cantante, e meno male che in linea di massima avevano più volume di quanto si chiede o si trova oggi in questo repertorio. E se non è accettabile certo che dive o divi impongano i loro direttori preferiti che si piegano ai loro capricci, come non capirli certe volte?

Venera Gimadieva, la ‘seconda' Elvira, era una piacevole sorpresa: un soprano liricoleggero ‘classico', di voce chiara ma non priva di personalità, un registro acuto esteso e facile, una buona tecnica (ancora deve conquistare i trilli) e un eccellente controllo del fiato; poi, anche bella presenza e buona attrice.

Ma ‘la' Damrau, molto più interessante in un'opera completa che in un concerto con pezzi di bravura vari pensati solo per brillare, era davvero straordinaria: e che trilli, glissandi e tutti gli orpelli e ornamenti che sfoggiano – quando possono – i soprani di coloratura, e soprattutto perchè, fenomeno vocale a parte, offriva una stupefacente creazione drammatica della protagonista, la migliore che io abbia mai visto finora su un palcoscenico: non solo sciorinava prodezze vocali ma qui si vedeva e quasi toccava una fanciulla fragile, più nevrotica che pazza. All'inizio ci si faceva sapere che non era in salute perfetta: non riesco proprio ad immaginare cosa di più e di meglio possa fare quando sta bene....

Celso Albelo possiede chiaramente una voce incisiva, corposa, fatto che in principio lo dovrebbe aiutare nel pericoloso ruolo di Arturo. Molto più in forma che nel suo recente Tebaldo nei Capuletti a Barcellona ha perfino osato (con buon risultato) il famigerato ‘fa' dell'atto terzo, ma, dalla sortita si sentiva una tensione nella voce, che non correva spontanea come in altre occasioni, e così, arrivati al momento fatidico di ‘A te, o cara', stonava in modo vistoso. Il fiato era buono ma più corto del solito. Forse, e ce l'auguriamo, si tratta solo di uno di quei momenti tipici nella carriera di quasi tutti i cantanti. Speriamo bene perchè ne abbiamo bisogno di un tenore delle sue qualità.

Javier Camarena non è andato a caccia del ‘fa', ma, detto che magari non dovrebbe frequentare troppo la parte (essendoci una quantità di altre che l'attendono), era semplicemente perfetto, con un'emissione sicura e spontanea da lasciarci a bocca aperta, la qualità del timbro, la tecnica esemplare (solo guardare la posizione e la forma di emettere quegli acuti micidiali era uno spettacolo fine a sé stesso), un fraseggio alla grande e un attore, come anche Albelo, molto coinvolto.

 

Venera Gimadieva

Per quanto riguarda i baritoni la differenza era più grande. George Petean è un cantante che ha una voce di tutto rispetto e corretto sì ma molto generico, le agilità risultavano poco chiare, l'acuto finale del grande duetto che chiude l'atto secondo a dir poco difficile. Perfino l'interpretazione risultava poco interessante.

Ludovic Tézier invece, bollato da alcuni come troppo ‘verdiano' (praticamente le stesse voci tempo fa dicevano che non aveva una voce adatta a cantare Verdi…), era favoloso: la voce è certamente più ampia, più scura e ha un notevole peso in centro, ma è riuscito a superare con grande disinvoltura le insidie della prima grande scena di Riccardo. Se qualcuno chiede qui più delicatezze e ghirigori (c'è stato qualche caso recente finito purtroppo male) poi viene tutto il secondo atto con delle richieste appunto tipiche di un baritono ‘verdiano': si può sempre desiderare il ritorno di un Battistini tanto per fare un nome – anche a me piacerebbe, e tanto – ma mi sembra poco probabile. Tézier cantava con grande nobiltà, mai una nota falsa o un problema d'intonazione, un grande senso dell'accento e del fraseggio (verdiani anche questi?), con degli acuti, ma anche un centro e un grave tutti impressionanti per omogeneità e bellezza timbrica, e poi si muoveva parecchio bene.

Anche tra i due bassi si potevano verificare delle differenze, ma in questo caso usciva a testa alta l'interprete del secondo cast. Roberto Tagliavini avrebbe solo bisogno di un registro grave più rotondo e più possente (come si è visto chiaramente alla fine della sua grande aria), ma per il resto era un Giorgio più solido vocalmente di quello di Nicolas Testé, di un volume piuttosto ridotto e un timbro molto chiaro, anche se la presenza e l'eleganza scenica davano grande rilievo al personaggio, forse più che quando ne indossava i panni il basso italiano.

Cassandre Berthon incarnava una brava Enrichetta, punita dalla tessitura (la parte è per un mezzosoprano e lei è un soprano tipo soubrette) ma soprattutto dall'orchestra. Perfino la straordinaria Annalisa Stroppa (un vero mezzo, e quindi molto a suo agio in una parte che adesso risulta troppo piccola per lei) aveva due momenti dove la si sentiva appena. Entrambe interpretavano bene il personaggio della sventurata regina.

Poco da dire (e poco di buono) sugli interventi di Valton (un Miklós Sebestyén con delle possibilità forse ma che ha bisogno ancora di tanto lavoro) e soprattutto dell'insufficiente Bruno di Antonio Lozano.

Il pubblico, più folto la serata del primo cast, si mostrava contento e soddisfatto sempre durante la recita, ma per mia grande sorpresa, a spettacolo finito applaudiva sì con grande intensità tutti, ma per pochissimo tempo: gli artisti meritavano altro.

Jorge Binaghi

13/7/2016
Le foto del servizio sono di Javier del Real.