RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Cameristico e conviviale

La vita musicale romana è avara sul fronte della romanza da camera, dell'arietta da salotto, della Liederabend, della cameristica vocale in ogni sua possibile estrinsecazione. Le istituzioni deputate (Accademia di Santa Cecilia e Filarmonica Romana) preferiscono arpeggiare l'una sulle corde del sinfonico-vocale, l'altra della cameristica strumentale; e dei bei concerti canori realizzati, negli ultimi anni del secolo scorso, dal Club Orpheus al Teatro Ghione, a due passi da Piazza San Pietro, si è ormai persa la memoria. A colmare in parte il vuoto sopraggiunge la rassegna Domus Artium: al momento concentrata anch'essa, più che altro, su grandi strumentisti, ma che ora ha offerto una serata dove il canto da camera (e pure quello operistico, nella sua declinazione al pianoforte) è tornato in primo piano in tutta la sua dimensione preziosa, elegante, anche ironica.

Tentativo di coniugare la grande musica (sebbene piccola quanto a organico) con le meraviglie artistiche romane e le più disparate squisitezze culinarie, Domus Artium è il miglior antidoto a quella cultura del “distanziamento sociale” cha ha funestato antropologicamente una pandemia già più che funesta del suo: un aprire le porte delle dimore storiche della capitale – o di località ad essa limitrofe – intercettando gli amanti del bello e lasciando scoprire gemme musicali a chi non vi si sarebbe mai accostato, se non avesse avuto l'occasione di visitare questa o quella meraviglia del barocco romano (nel caso in questione la biblioteca di Sant'Ivo alla Sapienza, ideata da Borromini). Il tutto con il collante della convivialità enogastronomica.

Ne siamo debitori a un americano innamorato dell'Italia come Barrett Wissman, che non è solo il titolare di una delle più potenti agenzie di artisti musicali operante oggi sul pianeta, ma una singolare figura di musicista (pianista), filantropo (la sua factory nel Montana funge da falansterio per intellettuali e artisti indipendenti) e, naturalmente, organizzatore di eventi. Per questo primo recital vocale la scelta è caduta sul basso-baritono Luca Pisaroni, che tanto di rado si esibisce in Italia quanto è di casa a Salisburgo, e su un pianista che non è solo un accortissimo accompagnatore, ma pure un sagace solista, come il polacco Maciej Pikulski. Sia colpa del pomeriggio piovoso o della scarsa notorietà di Pisaroni in patria (un tentativo di lancio al Rossini Opera Festival, nel Siège de Corinthe di cinque anni fa, non diede luogo a esiti felici), la serata ha raccolto un pubblico poco folto e, tuttavia, plaudentissimo: dove è scattata fin dai primi minuti quell'empatia tra artista e spettatori che è il segreto di ogni concerto vocale.

La simpatia del dicitore e le antenne del teatrante di razza sono appunto le qualità migliori di Pisaroni, che non può contare su atout vocali di particolare pregio: privo dell'estensione di un autentico baritono, ma pure del colore e della risonanza che, nel registro grave, siamo soliti attribuire ai bassi, è – piuttosto – un “baritono corto” dalle misurate attrattive timbriche al servizio di un'arte del porgere scaltra e avveduta, sorniona senza strafare. A voler buttare l'occhio solo a ieri sera, viene da pensare al modello di José van Dam (con cui Pisaroni condivide il massimo cavallo di battaglia, cioè Leporello). Al netto, ovvio, dell'inarrivabile carisma del cantante belga.

Sapientemente bifasico, il programma schierava dunque tanto il Rossini e il Donizetti della piccola musica vocale da camera quanto quelli dei grandi classici (Semiramide, Lucrezia Borgia), offriva una manciata di rarefatti Bellini cameristici e li affiancava un paio di ultrapopolari Mozart operistici (il Farfallone amoroso e, scelta inevitabile, l'aria di Leporello). Poco idiomatico nel vernacolo napoletano delle ariette donizettiane, Pisaroni ha colto invece molto bene – nel gioco degli accenti, dei colori, della proiezione del testo – quell'aderenza alla versificazione con cui il Bellini da camera fa da apripista al Bellini operistico, inteso come compositore “della parola” prima che “della musica”; così come il piccolo album rossiniano ha restituito invece, nel suo canto, l'ironia disincantata, il senso del distacco, il filtro ancora settecentesco con cui il passatista Rossini gioca a schermarsi contro il “nuovo musicale” che avanza.

Simpatici, ma – come si conviene alla dimensione del recital – più “giocati” che “cantati” i brani mozartiani (nel Farfallone amoroso Pisaroni si è rivolto al pianista come fosse lui Cherubino), mentre i momenti topici di Assur in Semiramide e Alfonso d'Este in Lucrezia Borgia hanno offerto spunti di maggior interesse. Qui affronta la dimensione dell'aria operistica tanto nella sua fisionomia più ampia (quella di Assur è una vera e propria “gran scena” e Pisaroni vi si cimenta nella sua interezza, partendo dall'articolatissimo recitativo iniziale) quanto nella sua complessione più sintetica (in Vieni, la mia vendetta Donizetti rinuncia al “tempo di mezzo” e transita senza soluzione di continuità dall'aria alla cabaletta): un ottimo banco di prova per mostrare la duttilità del basso-baritono e l'ampiezza del suo ventaglio psicologico-stilistico, anche se un certo impaccio – o forse solo un eccesso di circospezione – nel canto di coloratura rendono la pagina di Rossini meno appagante di quella di Donizetti.

I due bis di Tosti non hanno aggiunto molto, mentre un plusvalore sono stati i brevi intermezzi pianistici collocati strategicamente per garantire un po' di respiro al cantante. Impeccabile accompagnatore di tutti i brani vocali, Pikulski si è ritagliato anche due magistrali primi piani con le parafrasi di Liszt dal Rigoletto e lo chopiniano Valzer di un minuto: nel primo caso replicando sotto altra forma la dialettica cameristico-operistica che informava il concerto e, nel secondo, creando un sotterraneo filo rosso tra il suo connazionale Chopin e il Bellini cantato da Pisaroni poco prima.

Paolo Patrizi

6/4/2022

La foto del servizio è di Flavio Ianniello.