89 Seconds to Midnight
in prima assoluta al Farnese di Parma
A voler essere scaramantici, il venerdì 17 non è propriamente una data propizia per dare il via a qualcosa di importante. Specie se il venerdì 17 cade in ottobre, quando ricorre l'anniversario di morte di Chopin, un dato musicalmente luttuoso che non fa ben sperare per tutto ciò che è musicale. Eppure eccoci qui, venerdì 17 ottobre 2025 per assistere alla prima assoluta di 89 Seconds to Midnight, “opera” (per la spiegazione delle virgolette vedasi infra) che si fregia della musica di Maria Vincenza Cabizza e del libretto di Lisa Capaccioli, curatrice anche della regia. Si aggiungano le scene, i costumi e i contributi video di Francesca Sgariboldi, le luci di Andrea Borelli e il RIM e il sound design di Davide Bardi.
A caldo, le suggestioni lasciate da questo spettacolo di circa un'ora e mezza, che rientra nella rassegna Ramificazioni del XXV Festival Verdi e nel Progetto Gradus in scena di Reggio Parma Festival, sono molteplici. Per mettere ordine, partiamo da ciò che riporta la locandina. «89 Seconds to Midnight è un'opera contemporanea in cui musica strumentale ed elettronica, canto lirico, teatro e danza si intrecciano per interrogare e illuminare due temi di grande attualità: il cambiamento climatico e il trattamento che la società riserva al pianeta Terra e ai suoi abitanti più deboli o vulnerabili. Il titolo rimanda al Doomsday Clock, l'orologio simbolico che misura la vicinanza dell'umanità all'apocalisse. 89 Seconds to Midnight racconta un mondo in crisi: un paesaggio arido, senza acqua e senza speranza, consumato e svuotato dalla noncuranza degli uomini. In questo scenario una madre e un figlio sono quasi giunti alla fine di un lungo viaggio. Il giovane porta sulle spalle l'anziana donna […]. I due stanno portando a termine un rituale: la madre, ormai troppo anziana, verrà abbandonata sulla montagna più alta affinché muoia da sola […]. L'ultima notte, mentre il figlio dorme, la madre viene sorpresa da tre figure femminili dalle sembianze animalesche che sanno dove la madre sta andando. Allo scoccare della mezzanotte, madre e figlio affronteranno il loro destino». Che è, completiamo a fine recita, quello di morire. Muore infatti prima il figlio, forse stremato dalla fatica di aver portato la madre, forse di stenti, forse perché incapace di affrontare la realtà ultima di quel viaggio; e muore anche la madre, ma non di stenti, come nel senilicidio degli Inuit o di altre popolazioni, bensì assumendo un'erba velenosa recuperata sul corpo del figlio: come a dire che la scappatoia dalle difficoltà, volendo, è sempre stata a portata di mano. E a sopravvivere al figlio, la madre non è disposta neppure per un momento. Tutto si compie, quindi, tutto finisce, mentre l'epilogo, affidato a una sorta di danza rituale della Strega 1 (Daisy Ransom Phillips, responsabile delle coreografie, che esibisce anche una buona dose di atletico contorsionismo).
Ripercorriamo le parole della locandina, sì da analizzarle per punti alla luce della recita. È improprio definire “opera”, questo spettacolo, perlomeno nel senso corrente del termine – e sul significato dei termini bisogna pur accordarsi per capirsi: è la base del linguaggio. A ben vedere, si avvicina di più a una performance, al teatro di prosa, una prosa però musicale, musicata dall'inizio alla fine, sfruttando pervasivamente, come si diceva, sia l'elettronica, con testi e suoni campionati, sia la musica strumentale, affidata all'eufonio della Strega 2, Marina Boselli, e alla tuba della Strega 3, Fanny Meteier. Ed è proprio da ravvisare nella presenza delle tre streghe la connessione (labile a dire il vero…) con la presente edizione del Festival Verdi, che vede esplorare il legame tra Verdi e Shakespeare e che ha nelle sirocchie del Macbetto il suo punto di tangenza. L'organico, se così si può definire, si riduce a questi due ottoni (cosa che fa fare a meno della figura del direttore d'orchestra: serve però un bravo tecnico del suono, in questo caso affiancato dalla compositrice ed entrambi accanto alla consolle al fondo della sala), che per parti dello spettacolo trovano posto ai lati della scena, con leggii predisposti e cubi di legno per sgabelli, e per altre parti si muovono su di essa, partecipando fattivamente alle coreografie e in certi casi pronunciando parole addirittura nel bocchino dello strumento. Non è certo la prima volta che degli strumentisti vengono ad avere parte attiva in uno spettacolo, dalla tromba in palcoscenico che accompagna Dulcamara in avanti (e indietro); di certo, il fatto che entrino in trio con la Strega 1, alla quale comunque è riservato il ruolo più importante quqnto ad arte tersicorea, può costituire elemento di novità – uno dei tanti, sia detto. Il fatto che le due strumentiste fossero donne per poter interpretare le Streghe cade a pennello, ed è sicuramente voluto; ma ciò non potrebbe essere un fattore condizionante per le prossime eventuali repliche? A meno di non voler considerare questa come la sola e unica: in tal caso definirla “prima assoluta” perderebbe di senso. Da questo punto di vista, la splendida cornice del Teatro Farnese di Parma, costruito tutto in legno nella prima metà del Seicento, sulla scorta dell'Olimpico di Vicenza, e utilizzato in totale nove volte prima della sua distruzione durante la seconda guerra mondiale, dovrebbe far scuola: spettacoli che, pur nella loro originalità costituiscano un unicum e non possano essere ripresi in seguito risultano un po' fini a se stessi – a meno di non trovare altre due strumentiste con sufficiente senso ginnico e attoriale da replicare quanto fatto, peraltro benissimo, da Boselli e Meteier. In ogni caso, il loro contributo più importante è sicuramente però quello musicale, costituendo una trama sonora quasi costante alla rappresentazione, talvolta entrando in duo con la voce, talvolta sviluppando autonomamente frammenti di “temi” – che poi sono più che altro spunti, dotati però di una loro pregnanza, soprattutto emozionale, frasi angoscianti o il pulsare del cuore umano (ricorda certe percussioni della scena del Commendatore del Don Giovanni …) e che col loro riproporsi, quasi temi reminiscenza, fanno da collante alla recita –, talaltra fornendo una sorta di sottofondo nello stile dei canti tibetani. A questi suoni si sovrappongono quelli campionati, con un effetto di sterofonia dato dalla doppia sorgente.
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Il canto lirico si esplica nei due personaggi, la Madre, soprano, qui Maria Eleonora Caminada, e il Figlio, controtenore, qui Danilo Pastore. All'interesse per una forma di canto antico sfruttata in una composizione contemporanea si somma quello per l'utilizzo delle voci. Entrambi sono chiamati a cantare e recitare, sempre sul sottofondo musicale spiegato prima; a volte, una stessa parola è per metà recitata e per metà cantata, intonandone per esempio solo le sillabe finali; a volte il canto si tramuta in urlo, rimandi a certo Strauss di Elektra o meglio a certo Ligeti, penso a quello del Requiem; addirittura, su «Queste parole che dici, queste parole che urli», al controtenore è richiesto aspirare il fiato, anziché emetterlo, come per la tecnica di suonare l'armonica a bocca in aspirazione. La gola umana viene vista letteralmente come uno strumento ed esplorata in quasi tutte le sue potenzialità: canto lirico, canto non lirico, urlo, recitazione (manca solo il canto maschile vero e proprio; anzi, c'è in alcune parti del Figlio, anche se non propriamente lirico). Colpisce il morbido timbro di Pastore nell'emissione controtenorile e ancor più l'accesa drammaticità di Caminada, chiamata a interpretare il non facile ruolo della Madre. Dispiace solo per una percezione distorta di questo canto. Il libretto, più che una serie di dialoghi, è una sorta di collezione di frammenti, di frasi che alludono ma che non spiegano. Il riverbero a eco dei suoni campionati sembra a volte completare ciò che gli attori/cantanti non dicono/cantano, facendo forse da voce interiore, da inconscio, da coscienza – e senza l'applicazione Lyri, a cura della quale il libretto veniva proiettato in simultanea sul cellulare, molto di questo testo, e parte di quello recitato/cantato, andava perso, in mancanza di sopratitoli; ma forse in ciò risiede parte della volontà degli autori, lasciare qualcosa di sfuggente, che non possa volutamente essere capito. Dispiace, si diceva, per una percezione distorta. Il libretto, ça va sans dire, non è in metrica. Sono pezzi di conversazione. Messi in voce, cantati liricamente, l'orecchio del melomane non li associa al canto “d'opera”, dotato d'una sua cadenzante ritmicità, ma a quelle contraffazioni liriche per cui si dileggia sovente il canto lirico storpiando, da chi non è in grado di farlo, frasi del parlare comune. E questo, dato che si tratta proprio di parlare comune, sottrae purtroppo parte dell'immedesimazione e della tensione a uno spettacolo che, così com'è stato congegnato, racconta per allusioni, si diceva, dipanando una trama non per dialoghi ma per frammenti.
Resi cadaverici ed emaciati dal trucco, con nere occhiaie segno di innumeri notti insonni, entrambi vestiti di scuro, in una sorta di kimono da aikido fissato in vita da una cintura metallica argentea, coperti da un mantello che pare ricavato da pellicce di animali cucite assieme, Madre e Figlio – a che nomarli? è inutile! – si muovono su una piattaforma leggermente inclinata verso il pubblico e che lambisce quasi la prima fila di sedie: scena unica, perennemente nell'oscurità – tutto il Farnese è tenuto al buio, fuor che i riflettori puntati sulla piattaforma, cosa che contribuisce non poco a un'esperienza immersiva, complice un rombo sordo, vagamente inquietante, che accoglie lo spettatore in attesa dell'inizio –, con un albero nodoso e secco al centro e un piccolo ceppo sulla destra (di più difficile decifrazione è il grosso pezzo di specchio che compare verso la fine, prima invisibile, poi sollevato dal pavimento della scena). L'arrivo dei due è dal fondo della sala, sorta di Anchise ed Enea in fuga da Troia in fiamme. E in effetti si ha questa idea di un mondo post-apocalittico, da cui i due stiano fuggendo: il riferimento a La strada di McCarthy pare evidente in questo cammino senza meta di due esseri senza nome in un ambiente straniante e desolato, uniti da un legame di sangue. Ma in questo caso la meta c'è, sia come luogo, sia come fine. Si allude a un rituale messo in atto da generazioni, dacché si deduce che il mondo è in quelle condizioni da parecchio.

«It's time», ripetono più volte le Streghe. È tempo. È giunta l'ora. Non è chiaro il perché del bilinguismo, titolo in inglese e la maggior parte del testo in italiano, con inserti nell'idioma di Albione – a meno di non ravvisare anche in ciò un labile raccordo con la lingua del Bardo. Ma lo scoccare della mezzanotte “apocalittica”, sulla scorta di quel Doomsday Clock cui si accennava prima (ideato nel 1947, all'indomani dei bombardamenti nucleari, per indicare simbolicamente quanto mancherebbe a un conflitto senza più ritorno), realmente posizionato adesso, nel 2025, a ottantanove minuti dalla mezzanotte, quello è chiaro: ed è scandito da rintocchi di campana e da una voce registrata che inizia il conto alla rovescia: eighty-nine… eighty-eight… eighty-seven… fino a quando, al colmo della tensione, muore il figlio e segue quanto detto, su una lunga trenodia danzata, che funge da commiato alla recita.
Non sono molti gli spettacoli che parlano di questi temi, così drammaticamente attuali e spesso visti prospetticamente lontani, nel tempo e nello spazio, tali che potrebbero anche non riguardarci. Ci aveva provato John Adams, ormai già vent'anni fa (2005), col suo Doctor Atomic, sulla vicenda di Robert Oppenheimer e del test Trinity. Ma questo, a latere delle considerazioni personali lasciate al lettore, permette di riflettere sul valore di quanto messo in scena. È difficile valutarlo obiettivamente, alla luce dei molti contenuti innovativi, originali, financo estrosi. Di sicuro è uno spettacolo audace, di non facile concezione e soprattutto di non facile realizzazione. Gli ideali wagneriani di Gesamtkunstwerk sono sicuramente rappresentati, essendoci qui la fusione di canto, musica e recitazione (sebbene non si possa proprio dire anche “poesia”). Gli interventi coreutici non sono meramente esornativi, ma parte integrante dello spettacolo, per quanto i movimenti a scatti non rispondano a un'esigenza scenica precisa. Per l'uso delle luci, anche se in questo caso per sottrazione, viene in mente lo Skrjabin del Prometheus e il suo tentativo di coniugare musica e colori, o certi esperimenti sinestetici come Der gelbe Klang di Kandinsky e Thomas de Hartmann. Coinvolgente lo è di sicuro, a motivo di questa componente multisensoriale e dei molteplici spunti di riflessione, che vengono sollevati ma ai quali non viene fornita risposta o soluzione, tanto intrinsecamente, perché la vicenda è autoconclusiva, finendo con la morte dei personaggi e con le Streghe che, iene a guardiane del nulla, si ergono sulla desolazione all'intorno, tanto estrinsecamente, perché è lo spettatore chiamato in causa. Come in molta letteratura moderna – e come in Verdi, a ben pensarci: vedi La traviata –, compito dell'artista è rendere coscienti di un problema, non risolverlo. Non si nasconde una certa perplessità (“sconcerto” sarebbe troppo) di fronte all'esito artistico complessivo e a questi sperimentalismi che non si vorrebbero confinati, torno a ripeterlo, nel campo dell' una tantum. Mahler stesso, pur non comprendendo Schönberg e la sua scuola, si batté affinché venissero eseguiti. E non ci si vuole nemmeno trincerare dietro quello che Slonimsky definì «il rifiuto dell'insolito» (è di recente pubblicazione, a proposito, per i tipi di Adelphi, Invettive musicali, a cura dello stesso Slonimsky, che raccoglie molte recensioni negative a capolavori all'epoca appena nati e fatalmente incompresi), anche perché, se non ci fosse mai stata evoluzione, anche di rottura, saremmo ancora fermi al gregoriano, o alla polifonia fiamminga; di certo, è necessario un certo lasso di tempo affinché le novità possano decantare a dovere, prima di essere comprese appieno; è necessaria una certa distanza temporale affinché la miopia che quasi per forza grava gli occhi mentali del contemporaneo possa mettere a fuoco quanto l'artista, col suo lungimirante (e mahleriano) «il mio tempo verrà», ha visto, moderno Prometeo, prima degli altri. Significativi a tal proposito sono stati gli applausi a fine serata, rispettosi, educati (nessuno al giorno d'oggi si sognerebbe di fischiare sonoramente come fischiarono a Verdi la sua Traviata, per stare in tema: pudicizia, timore di offendere? O assopimento di senso critico, o remore a dire la propria, giusta o sbagliata che sia?), ma di certo non entusiasti. Per intanto, facciamo nostra la frase che campeggia nei neon blu del cortile interno del complesso della Pilotta, proprio all'ingresso del Teatro Farnese: Time present and time past are both perhaps present in time future. Sembra quasi alludere a Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit; ma questa è un'altra storia…
Christian Speranza
18/10/2025
Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.