RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


MARIA DI SCOZIA E LA CUGINA INGLESE

RITORNANO AL THÉÂTRE ROYAL

 

Non son sessant'anni - come canta Gérard in Andrea Chénier - bensì cinquantasei da quando Maria Stuarda (1834), dopo un quasi secolare oblìo subentrato alla poco altisonante carriera ottocentesca - conclusasi, guarda caso, al Teatro Comunale di Catania nella primavera del 1866 - è riemersa a Bergamo nel 1958. Da allora ha frequentato assiduamente scene importanti, minori o periferiche ai quattro angoli del pianeta.

All'indomani della magnifica edizione della Stuarda del Maggio Musicale Fiorentino 1967 (con le carismatiche Leyla Gencer e Shirley Verrett), che l'attirò più imperiosamente all'attenzione, Massimo Mila scrisse su “ La Stampa ” che impresa vana e improba era frugare nella spazzatura alla ricerca di perle smarrite. Ma l'esimio professore-giornalista volle superare se stesso, aggiungendo che la fonte letteraria, Maria Stuart di Friedrich Schiller (1800), si poteva ascrivere tra i peggiori lavori teatrali del drammaturgo tedesco! Avrebbe dunque preso un abbaglio, a quasi mezzo secolo di distanza, l'autorevole critico francese Pierre Cadars che al contrario considera la Stuarda «très certainement l'un des meilleurs opéras surgis sous la plume de Donizetti» (“Opéra Magazine”, maggio 2014)?

Seconda “giornata” della non premeditata trilogia Tudor donizettiana (tra Anna Bolena e Roberto Devereux), Maria Stuarda è ritornata al Théâtre Royal di Liegi, accolta da una sala gremita in ogni ordine di spettatori accorsi, oltre che dal Belgio francofono e fiammingo, dalla Germania e dall'Olanda. La carriera belga della Stuarda, qui sconosciuta nell'Ottocento, si compendia nelle cinque edizioni moderne, tre liegesi (1981, 2008 e 2014) e due fiamminghe a Gent e Anversa (1984 e 2006). A dire il vero, anche la Monnaie di Bruxelles l'aveva programmata nel 2008, auspice il bicentenario della nascita di Maria Malibran (sua prima protagonista alla Scala di Milano nel 1835), ma i capricci di Anna Caterina Antonacci costrinsero purtroppo il Teatro brussellese a cancellarla subito dopo dal cartellone già pubblicato.

Tra il pubblico di Liegi non dovevano essere rari coloro, che, come me, conservavano vivida memoria della precedente edizione dell'ORW di sei anni addietro. Il confronto è purtroppo ingrato.

È stato istruttivo rivedere la collaudata, qua e là ritoccata, regia di Francesco Esposito, concepita sulla scenografia essenziale a impianto unico di Italo Grassi. La scena delimita, tra una grata-gabbia e un muro di fortezza, lo spazio claustrofobico che rinchiude i personaggi e la corte, lasciando il popolo oltre la grata. Un'altra grata plana dall'alto, dopo aver separato in posizione verticale le due regine durante il preludio “commentato” (soluzione più suggestiva e pratica dell'incomodo labirinto escogitato da Denis Krief, che si è visto altrove). Ma la ripresa è quasi un copia e incolla con scarsa fantasia, mentre gli interpreti sembrano un pò abbandonati alla propria iniziativa. I costumi storici tradizionali sono dello stesso Esposito, le luci di Daniele Naldi.

Il meglio che si possa dire del direttore Aldo Sisillo, avvantaggiato dalla buona Orchestra dell'Opéra Royal de Wallonie, è che riesce a disimpegnare l'ordinaria amministrazione - salvo sopraffare le voci in momenti cruciali - senza quelle impennate folgoranti o quei palpiti lancinanti a cui la partitura donizettiana, ispirata dal bel libretto di Giuseppe Bardari, invita generosamente, e dunque «sans souffle ni flamme», come dal canto suo ha sottolineato Nicolas Blanmont (“ La Libre Belgique ”, 23 maggio).

Quale protagonista, il soprano Martine Reyners mi è sembrata una specie di brutta copia della Lucia Aliberti d'antan, ma la voce è piccola e l'emissione difficoltosa, il che ne vanifica la ricerca di grazia ed espressività. Si fa valere però nell'invettiva dello scontro con Elisabetta e se la cava onorevolmente sulla scena. Al contrario, l'Elisabetta del mezzo soprano Elisa Barbero, se non demerita nella prestazione vocale, sfiora il ridicolo con un'enfasi desueta e atteggiamenti poco regali. Il tenore Pietro Picone è un Leicester che lascia il tempo che trova e degli altri basta notare che il baritono Yvan Thirion non è privo di interesse quale Cecil, che il basso Roger Joakim si rivela un onesto Talbot, e che il mezzo soprano Laura Balidemaj ricopre il ruolo di Anna.

Resta da dire del Coro della Casa, diretto da Marcel Seminara, ragguardevole nei vari interventi, maiuscolo in quel 'Vedeste! Vedemmo!', il coro dei servitori di Maria Stuarda nell'ultimo atto, che è una delle pagine più grandi composte dal Bergamasco.

Ma il Coro, se non è 'Va pensiero', non si applaude a scena aperta, e questa è vecchia storia, anzi vecchia stortura!

Fulvio Stefano Lo Presti

3/6/2014