RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Violetta allo specchio

 

– Le è piaciuta l'opera, cara?

– Oh, mi si sono aggrovigliate le budella!

( Pretty woman. Reg. Garry Marshall 1990)

Il Teatro Regio di Torino dedica il mese di dicembre 2018 al suo terzo titolo in programma, La traviata di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, dando così seguito al progetto di proporre l'intera “trilogia popolare” verdiana (sebbene non in ordine cronologico), iniziata col Trovatore inaugurale e completata dal futuro Rigoletto nel prossimo febbraio.

Come nel caso delle altre due sorelle della trilogia, anche in questo caso la figura principale è quella di un personaggio dalle origini non nobili, né elevate, tratto che accomuna il Manrico del Trovatore (“Il figlio della zingara”) e il Rigoletto dell'omonima opera: un buffone di corte. Nel caso della Traviata, una mantenuta d'alto bordo della Parigi ottocentesca. Il soggetto è tratto da La dame aux camélias, romanzo di Alexandre Dumas figlio, nel quale è adombrata la storia vera di Marie Duplessis, cortigiana francese morta giovanissima di tisi, come la Marguerite del romanzo (che diventerà la Violetta Valéry dell'opera), e amata dallo stesso autore. L'opera andò in scena per la prima volta in assoluto alla Fenice di Venezia il 6 marzo 1853, raccogliendo un pesante insuccesso, ma si riscattò un anno dopo, il 6 maggio 1854, quando venne ripresentata al Teatro San Benedetto (sempre di Venezia) in una seconda versione praticamente identica alla prima, fatta eccezione per qualche trasporto di tonalità, per adattare alcuni passaggi alla vocalità del nuovo cast, e per poche altre modifiche: «Allora fece fiasco: ora fa furore. Concludete voi!» scriveva Verdi a De Sanctis a venti giorni esatti dalla “seconda prima”. E il furore non manca di farlo ancora oggi, a più di centocinquant'anni dalla sua nascita!

Con La traviata, al volgere grosso modo del mezzo secolo, si concludono gli «anni di galera» di Verdi: giunto al massimo della fama e dell'espressività dei suoi lavori teatrali e, dopo aver fatto evolvere il melodramma italiano dalle forme più prettamente donizettiane dei primi esiti a quelle ben più personali degli anni Cinquanta, il Bussetano si avvierà verso una «seconda perfezione» (Mila), che feconderà titoli di altrettanto sicuro effetto scenico, ma scalati lungo gli anni con tempistiche più lasse: Les vêpres siciliennes seguiranno infatti La traviata due anni dopo, nel 1855, e altri due anni separeranno questi dalla prima versione del Simon Boccanegra, del 1857.

Per questa Traviata il Regio ricorre a un allestimento ormai storico, ripreso da Benito Leonori. Da quando fu concepita per lo Sferisterio di Macerata, nel 1992, la “ Traviata degli specchi” di Henning Brockhaus, con scene di Josef Svoboda, continua a suscitare consensi di pubblico e critica. Un enorme specchio inclinato riflette dall'alto l'azione sul palcoscenico, dove i cantanti si muovono letteralmente “sulle” scene, dipinte su teli adagiati sul pavimento, in modo da essere riflesse dallo specchio – teli che vengono raccolti a mano da operatori teatrali sotto gli occhi del pubblico, che può apprezzare un aspetto della macchina scenica solitamente occultata. Il discrimine tra realtà e finzione diventa così labile, come il mondo finto spacciato per vero dei salotti delle mantenute, delle cocottes, i cui sentimenti, veri o simulati che fossero, dovevano piegarsi ai desideri e ai capricci dei protettori; e allo stesso modo come il mondo di ipocrita apparenza della società borghese incarnato da Giorgio Germont: non si parla con le donne perdute, non si deve aver niente a che fare con loro, per essere rispettabili. («”Una cocotte !...” / “Che vuol dire, mammina?”/ “Vuol dire una cattiva signorina: / Non bisogna parlare alla vicina!” […] “È vero che tu sei una cocotte ?” / Perdutamente rise…E mi baciò / Con le pupille di tristezza piene»: Gozzano). Intuizioni teatrali innovative, originali, che finalmente apportano una ventata di novità rispetto all'abusato allestimento di Laurent Pelly, proposto ininterrottamente dal 2009 fino al luglio del 2015, dove la scenografia si limitava a cubi e parallelepipedi neri. Qui, in questa ripresa, si hanno costumi credibili, realistici, merito di Giancarlo Colis, e arredamenti coerenti con l'epoca, spostata dalle prime decadi dell'Ottocento agli anni parigini fin de siècle di Boldini, degli Swann e delle Odette. Qua e là qualche movimento scenico non convince molto: i reggicalze in vista delle ragazze che animano il salotto di Flora e il lancio delle scarpe da parte di Violetta paiono esagerazioni anche nel regno del piacere di quei salotti – che, per inciso, non dovevano costituire degli specimina di bon-ton. E c'è spazio per comunicare qualcosa anche sul piano del simbolico, non per forza del verosimile: il coro Si ridesta in ciel l'aurora (magistralmente interpretato dal Coro del Teatro Regio, sotto la guida di Andrea Secchi) è cantato quasi soffocando Violetta, con tutti i coristi attorno e quasi addosso a lei, sotto un mirabile quanto spettrale gioco di luci.

Sul versante più propriamente musicale, la direzione di Donato Renzetti si conferma ancora una volta precisa e puntuale nel lavoro di concertazione, affinando e asciugando le pur tante occasioni concesse all'orchestra di scivolare in quell'atmosfera dozzinale da concerto di fine anno. Il famosissimo brindisi è reso senza trascinamenti o sbrodolature, così come altre pagine di più acceso patetismo, come l'Amami, Alfredo o Addio, del passato, tutte scene strappalacrime e quindi ganci cui aggrapparsi per far leva sul pubblico per salvarsi da una possibile esecuzione mediocre. Renzetti, puntando sulla qualità e sul valore intrinseco della musica verdiana, e potendo contare su una compagine orchestrale di comprovato valore come quella del Teatro Regio, rinuncia a queste facilonerie confezionando un'esecuzione pulita e accurata. Tale asetticità rischia, tuttavia, di sminuire quel coinvolgimento emotivo di cui il melodramma ottocentesco in parte si alimenta, soprattutto laddove i fatti coinvolgono personaggi-persone e non pure icone eroiche in qualche modo meno affini al sentire comune. È forse per questo che, a fine spettacolo, tale coinvolgimento, almeno per parte dello scrivente, è quasi nullo, raggiungendo l'apice della freddezza nel duetto Violetta-Giorgio: musicalmente ineccepibile, equilibratissimo nel dosare volumi orchestrali e tempi scenici – l'orchestra non copre mai le voci e le lascia libere di dispiegarsi, fornendo loro l'adeguato sostegno armonico-melodico ma non sovrastandole mai –, ma fin troppo “educato”. Ci si riferisce qui all'esecuzione di domenica 23 dicembre 2018. Certo, è da tener conto della variabile personale, per cui la vicina, alla sua prima Traviata, si è emozionata al livello “pelle d'oca”.

Il cast si presenta disomogeneo. Maria Grazia Schiavo, dal canto limpido e morbido, affronta senza difficoltà alcuna l'impervio ruolo di Violetta e si apre nel cuore di pubblico e critica una breccia duratura. Capacità drammatiche e belcantistiche si intrecciano quasi a pari livello, con leggera precedenza di queste su quelle. E sì che l'avevamo lasciata a giugno-luglio nei panni delle Susanna e Donna Anna mozartiane, ruoli di ben differente vocalità: a dimostrazione di una duttilità sorprendente, che viene spesa a dovere anche qui in Traviata, nelle tre attitudini, una per atto, che la voce di Violetta deve assumere: virtuosistica, lirica, drammatica. A lei si affianca l'Alfredo Germont di Dmytro Popov, che, a parte i passaggi in fortissimo, esibisce una voce totalmente ingolata, senza proiezione, che di rado decolla in modo convincente. L'esecuzione altalenante di De' miei bollenti spiriti è condotta tra spinte di gola e passaggi in falsetto laddove l'estensione non risulta consona al registro abituale. Da non dimenticare, ma solo per evitare di ripetere. Risolleva le sorti Giovanni Meoni, baritono chiaro che, con un sapiente uso dei fiati (indispensabili in Di Provenza il mar, il suol, quasi senza prese di fiato) e una corposità vocale che non viene persa neanche quando si inerpica nel registro acuto, tratteggia un Giorgio Germont di melliflua, quanto determinata oratoria.

Completano il cast la Flora Bervoix di Elena Traversi, la Annina di Ashley Milanese (già Giannetta dell'Elisir d'amore presentato a novembre e che qui si riconferma abile comprimaria), il Gastone di Luca Casalin, il barone Douphol di Paolo Maria Orecchia, il marchese D'Obigny di Dario Giorgelè, il dottor Grenvil di Mattia Denti (ottimo basso cavernoso, da riascoltare in ruoli di maggior spessore), il Giuseppe di Alejandro Escobar, il Domestico di Marco Sportelli e il Commissionario di Giuseppe Capoferri.

Christian Speranza

5/1/2019

Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.