RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

Recondite Armonie

Tra i tanti pregiudizi che affliggono un certo pubblico di opera lirica, all'interno del quale vanno purtroppo annoverati molti musicologi, il più pernicioso è senz'altro quello di voler considerare il melodramma come un prodotto esclusivamente musicale, fatto cioè di esecuzione strumentale e vocale, prescindendo dall'aspetto drammatico che ne è invece una parte essenziale e costituente. Da qui, due diverse scuole di pensiero: la prima, attenta solo alla filologica precisione dell'esecuzione, per cui la mancanza di una decina di battute in un recitativo, o il taglio di un'aria (spesso eliminata dallo stesso compositore dopo il debutto), li fa gridare allo scandalo o al delitto di lesa maestà; la seconda, ancora più perniciosa, attenta solo a note particolarmente difficili che debbono essere prese da uno dei cantanti. Anche in questo caso, il minimo errore, magari di un quarto di tono, genera mugugni, proteste e anatemi più o meno come un rigore sbagliato ai Mondiali.

In entrambi i casi, sia che prevalga la mentalità erudita, sia quella calcistica (col do di petto più o meno equivalente a un gol), la specificità del melodramma, e di quello italiano in particolare, va tranquillamente a farsi benedire, e l'idea che si ha di opera lirica è quella di un informe assemblaggio di roba, dove l'orchestra va valutata su criteri puramente sinfonici, i cantanti per i gol che segnano, e la regia costituisce una trascurabile appendice, insieme alle luci, ai costumi, e a tutto quel che già Aristotele, parlando della tragedia greca, considerava un elemento essenziale per la fruizione dell'opera in quanto tale. Operando in tal modo, va perduta la concezione globale del melodramma, che è da considerarsi storicamente e sociologicamente una forma per così dire ibrida di arte, dove la componente musicale e quella drammatica interagiscono in maniera inestricabile, formando una totalità qualitativamente maggiore della somma delle sue parti; inoltre, e questo vale in particolare per l'opera italiana, bisogna sempre ricordare che di fatto, per tutto l'Ottocento, essa costituì l'unica forma di teatro nazionale di larga fruizione, venendo di fatto, almeno fino ai primi del Novecento, a sostituirsi al teatro drammatico. In seguito, i librettisti furono drammaturghi e non più poeti, contribuendo a siglare un'unità tra musica e azione, e un reciproco contemperarsi, già intuito da Bellini, perseguito tenacemente da Verdi, e lasciato in eredità al melodramma verista e al grande Puccini.

Detto questo, è facile comprendere perché chi voglia recensire la messa in scena di un'opera lirica necessiti non solo di un approccio globale, ma debba partire dalla regia, dagli intenti di questa, dalla riuscita o meno realizzazione di questi intenti, e solo dopo parlare dell'elemento musicale, valutandolo in uno con la regia e non separatamente.

La Tosca che ha debuttato al Teatro Antico di Taormina il 9 agosto rappresenta in tal senso un utile esempio di come debba essere una critica che non voglia lasciare tra parentesi ciò che è il melodramma italiano, privilegiando dunque la visione d'insieme sui metodi analitici o calcistici che non riescono di fatto a cogliere la globalità di una forma d'arte che è stata anche pesante strumento di critica sociale e politica.

Tosca, al di là dell'amore della cantante per il pittore, è fosca storia di potere e di sangue: è una vicenda ambientata in una Roma tirannica, dominata da un sovrano assoluto e dispotico, che in nome di Dio fa ammazzare la gente, la fa torturare e affama il popolo. Una Roma che rinasce terribile e cruenta sulle macerie della Roma imperiale: in quest'ottica, la gelosia di Tosca è un epifenomeno, così come il suo amore per Cavaradossi. Se dunque la regia coglie e vuol privilegiare questo elemento, è a partire da ciò che va impostata la critica, senza rimpiangere atmosfere sfarzose, arredi da chiesa, e fedeltà filologiche di vario tipo.

La scenografia impostata da Enrico Castiglione colpiva appunto per la sua disadorna ostensività, creando sin dall'inizio un'atmosfera di spaesamento adatta a ripensare la Tosca nella sua reale essenza: rotte colonne doriche punteggiavano il palcoscenico, mentre sulla sinistra una robusta, solida, lignea croce campeggiava per tutto il primo atto in una nudità oscura e minacciosa, quasi dalle rovine di una tirannia ne fosse sorta un'altra ben più terribile, almeno nelle mani di certi uomini. La Madonna dinanzi alla quale Tosca pone i suoi fiori è una statua piccola, all'ombra della croce, quasi in disparte: la misericordia della Madre di Dio nulla può contro la crudeltà degli uomini. Gli elementi ci sono tutti, insieme a luci algide, che illuminano qua e là le vestigia ben più antiche del teatro greco. Nel secondo atto la croce scompare, ma è la scrivania di Scarpia a campeggiare: un potere concreto, incarnato in un uomo infido, feroce e libidinoso, che ha alle spalle una gabbia coperta di rosso che imprigiona Cavaradossi. Nel terzo atto, solo le rotte colonne doriche, illuminate da una fredda luce azzurra, sono le mute testimoni della beffa atroce di Scarpia.

Una regia essenziale ma pregnante, sulla quale i cantanti hanno calibrato i loro ruoli, approfondendo drammaticamente la loro vocalità e amplificando nella gestualità il dramma del potere, prima che dell'amore, che si svolgeva: Elena Rossi, Tosca, ha prestato al suo personaggio una voce calda e ricca, in grado di sottolineare i momenti della più cupa disperazione con grande energia, ergendosi al di sopra dell'orchestra guidata da Cem Mansur. Elegante e raffinata nelle vesti stile impero disegnate da Sonia Cammarata, trovava accenti di giovanile ed impetuoso amore nei duetti con Cavaradossi, ma dardeggiava odio per Scarpia concretandolo in un gesto sprezzante, in un ritrarsi improvviso, riuscendo a sviscerare tutti gli aspetti del suo non semplice ruolo.

Giancarlo Monsalve è stato un Cavaradossi di grande slancio, generoso nell'uso della voce, infondendo al suo ruolo ardore amoroso e patriottico insieme; tenore elegante e sicuro, ha restituito vigore senza forzature allo sfortunato Mario, riuscendo nel contempo a trovare accenti davvero lirici soprattutto nell'ultimo atto, dove la bellissima E lucean le stelle ha scatenato un'ondata di puro entusiasmo nel pubblico che gremiva la cavea.

Francesco Landolfi ha delineato uno Scarpia non troppo malvagio, insinuante a tratti, efficace nella gestualità, ma purtroppo privo di quella carica sensuale e laida che accomuna il suo personaggio a paradigmatici cattivi del melodramma come Jago e Barnaba: voce non troppo estesa, ha sprecato gran parte dei recitativi, non riuscendo ad esprimere fino in fondo quel che una regia così colta e pregnante esigeva.

Buona la prova di tutti i comprimari, Ganluca Lentini (Ancelotti e Sciarrone), Giuseppe Distefano (Spoletta) e Antonella Leotta (Un pastore); un plauso particolare va alla verve comica di Giovanni Di Mare nel ruolo del Sagrestano. L'Orchestra Nazionale della Turchia, guidata con rigore e precisione da Cem Mansur, ha eseguito la non facile partitura con buon equilibrio, offrendo colori brillanti e discreto amalgama strumentale: anche stavolta, la sezione fiati ha costituito una gradevole sorpresa per nitidezza e tenuta di suono, come anche le percussioni, che hanno evitato facili prevaricazioni, contribuendo anzi a rendere molto cupi i momenti più tragici. Il Coro Lirico Siciliano, diretto da Francesco Costa, ha confermato la professionalità per la quale si era già distinto in Aida e Cavalleria Rusticana e Pagliacci, come anche il coro di voci Bianche “Progetto Suono” diretto da Rita Padovano.

Giuliana Cutore

10/8/2014