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  Scegliere di scegliere…

Trainspotting

Premesso che nella riduzione teatrale, più che cinematografica, di un romanzo, va sempre perduto molto, sia in termini di tempo scenico che di complessità della trama, e premesso che, come abbiamo già avuto modo parecchie volte di ribadire, l'ultima cosa di cui ha bisogno la letteratura teatrale sono gli adattamenti da opere di narrativa, va detto però che la messa in scena di Trainspotting, che ha avuto luogo al Musco di Catania il 20 febbraio, rappresenta comunque un tentativo abbastanza valido di svecchiamento dei consueti cartelloni, sia perché ha dato modo ai giovani allievi della scuola Umberto Spadaro di esibirsi in un testo adatto alla loro generazione, sia soprattutto perché il linguaggio adottato, di una crudezza ai limiti del turpiloquio, esorbitante rispetto al film, ha costituito un vero e proprio pugno nello stomaco per un certo pubblico avvezzo ad una sacralità del teatro oggi francamente insostenibile.

Cercando di valutare l'opera teatrale a prescindere dal testo narrativo d'origine, va senz'altro detto che il regista Giampaolo Romania ha offerto uno spettacolo abbastanza veloce, riuscendo in parte a salvare la dimensione romanzesca con l'uso di una serie di attrici, originale reinterpretazione del coro greco e delle sue funzioni, alle quali era a turno affidata l'esplicazione della vicenda: il fatto che le loro forme non fossero esattamente eteree e scultoree ha reso possibile evitare da un lato facili accuse a parte femminista, ma dall'altro ha agevolato una sorta di identificazione androgina dei vari ii narranti con i singoli protagonisti, sia maschili che femminili. Quanto poi al farle recitare in succinte brasiliane e reggipetto, va senz'altro detto che una aderente calzamaglia sarebbe stata molto più adeguata, e non per pruderie, ma semplicemente per rafforzare una sensazione di androginia che avrebbe evitato spaesamenti iniziali.

Ottimo invece il ritmo imposto al testo, veloce e secco, sottolineato da brevi stacchi musicali perfettamente in tema, e l'uso di una scena unica, opera di Carmelo Maceo, suscettibile di modificazioni continue, dotata di pochi elementi essenziali che rendevano in maniera adeguata lo squallore della vicenda narrata. In linea con ciò, il tema dominante, quello della droga e della ricerca dello sballo, è stato reso con estrema naturalezza, quasi con innocenza dai giovani attori, senza compiacimenti e rallentamenti, quasi con lo scorrere asettico delle immagini di un rotocalco. Di buon taglio le luci di Giuseppe Corallo e Salvo Lauretta, nette ma non gelide, con alcune virate nel psichedelico di grande effetto e suggestione.

Quanto agli attori, davvero tanti e non citabili per esigenze di spazio, sono riusciti, pur nei limiti di una avvertibile esordienza teatrale, a districarsi con una buona dose di disinvoltura in una pièce non certo facile da recitare: va però detto, e spiace dirlo, giacché il difetto coinvolgeva tutta la compagnia, che il vero punto debole continua a rimanere la dizione, non eccessivamente curata e mai ben chiara, cosa che ha spesso nuociuto all'intelligenza del testo. Inoltre, tutti gli attori hanno adottato una recitazione troppo impostata, a tratti francamente stentorea, più adatta alla tragedia greca o a Brecht che ad un testo contemporaneo e on the road: questa scelta ha inficiato parecchio lo spettacolo, creando uno iato profondo tra la vicenda e il modo in cui veniva portata sulla scena. Forse sarebbe stato meglio evitare questo iato, optando per un tono più realistico, e riservando la vocalità più impostata e stentorea ai soli momenti in cui Mark Renton recita il suo leit motiv sul dilemma sregolatezza-vita borghese, cosa che avrebbe avuto il pregio di aggiungere un secondo piano narrativo, oltre a quello del coro.

Pubblico abbastanza giovane, che ha gradito parecchio uno spettacolo comunque fuori dai soliti schemi, e in grado di avvicinare le nuove generazioni al teatro.

Giuliana Cutore

22//2/2015

Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.