RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una Traviata Belle Époque al Massimo di Palermo

Per La Traviata in scena al Massimo di Palermo dal 19 marzo al 1° aprile, il regista Mario Pontiggia ha firmato un nuovo allestimento, che verrà poi portato in tournée in Giappone, e che ha spostato in avanti l'epoca dell'azione del capolavoro verdiano di poco meno di una trentina d'anni: le bellissime scene di Francesco Zito e Antonella Conte, davvero sontuose nei primi due atti, offrivano alla vista dello spettatore grandi vetrate liberty e giardini d'inverno, mentre i costumi, sempre di Francesco Zito, facevano bella mostra di tessuti argentati e di piume fra i capelli delle donne. Non mancavano espliciti accenni alla diffusione della luce elettrica, con splendide lampade policrome nella casa di campagna di Violetta, pur nel rispetto delle didascalie d'ambiente del libretto di Francesco Maria Piave.

Una soluzione registica di notevole effetto, che è riuscita a portare una ventata di relativa modernità, ma senza arrecare alcuna violenza alla coerenza drammatica dell'opera: anzi, il contrasto tra lo splendore scenografico del primo atto e l'elegante arredamento della prima parte del secondo creavano un contrasto molto netto col progressivo denudarsi della scenografia durante la festa “lieta di maschere” in casa di Flora, ridotta a drappeggi rossi sul fondo, e del terzo, dove il letto di morte di Violetta campeggiava su una scena spoglia, mentre cupi drappi di un verde cupissimo coprivano il fondo. Una regia che seguitava il progressivo mutare della protagonista, dai fasti cortigiani all'idillio campestre, dal funesto ritorno alla vita parigina fino alla morte: da un punto di vista scenico, si imponeva ostensivamente l'idea che proprio in casa di Flora iniziava il martirio di Violetta, che si sarebbe concluso in un gelido mattino di Carnevale, con la folla che impazza sotto le finestre dell'ammalata. Pontiggia è riuscito insomma, pur e proprio nella fastosità, a rendere visivamente l'idea del lento, inesorabile precipitare verso la morte della protagonista, e in tal senso non c'è alcuna disomogeneità scenica tra le diverse parti dell'opera, ma solo l'intento programmatico di seguire, pur con un'ambientazione un po' spostata storicamente, l'evoluzione psichica e morale della cortigiana, che proprio grazie all'amore si stacca dalle sue simili acquisendo una sempre più definita personalità che la condurrà a giganteggiare sul palcoscenico per tutto il terzo atto. E forse a questo intento rispondeva anche la scelta di non vestire Violetta nel primo atto di un abito completamente differente da quello delle altre donne, come è scelta consueta: lì infatti è ancora una cortigiana tra tante, non ancora una donna con le sue passioni, le sue gioie e i suoi dolori.

Sul piano musicale, la direzione d'orchestra di Giacomo Sagripanti ha optato per tempi molto equilibrati, curando moltissimo la coesione strumentale e il giusto dosaggio delle sonorità, facendo sì che l'orchestra non sovrastasse mai i cantanti, ma anzi si adeguasse sempre a questi ultimi, permettendo dunque che si esprimessero al meglio delle loro possibilità. Il raffinato lavoro di cesello timbrico e agogico di Sagripanti è emerso soprattutto nei due preludi, in particolare in quello al terzo atto, e in tutta la prima parte del secondo atto, dove l'orchestra è riuscita a concretare tutto l'intenso e doloroso lirismo della partitura. Per quel che riguarda i cosiddetti tagli, va rilevato che la direzione di Sagripanti li ha mantenuti tutti aperti, come del resto, almeno per Traviata, sta diventando prassi abituale: erano dunque presenti la cabaletta di Alfredo “O mio rimorso! O infamia!”, quella di Germont padre “No, non udrai rimproveri”, mentre per quel che riguarda Violetta veniva ripristinata la seconda strofa di “Addio del passato”, mentre “È strano!... È strano!” mancava come sempre dell'ultima strofa; infine, sono state soppresse le battute dei personaggi presenti alla morte di Violetta, lasciando che la musica concludesse da sola.

Ottima anche la prestazione del coro, guidato come sempre da Piero Monti: in particolare, ne va rilevata sia la perfetta dizione, che permetteva agli spettatori di seguire senza nessuna fatica le battute, sia la disinvoltura scenica, che ha fatto sì che i suoi componenti agissero come personaggi e non, come spesso avvieme, come semplice tappezzeria di contorno.

Di buon livello tutti i comprimari, da Adriana Iozzia, Annina, a Giorgio Trucco, Gastone, da Paolo Orecchia, il Barone Douphol, un baritono di buon timbro, al Dottor Grenvil, il basso Romano Dal Zovo dotato di una voce molto interessante, e del quale nel terzo atto si è potuta anche apprezzare la buona tecnica. Precisi ma non troppo gli interventi di Piera Bivona nel ruolo di Flora.

René Barbera, nel ruolo di Alfredo, è dotato di una voce morbida e lunga, che gli ha permesso di affrontare la parte praticamente senza nessuno sforzo: perfetto il controllo dell'intonazione, con acuti sempre coperti e mai sforzati. Attento più alla qualità che alla quantità del suono, cosa purtroppo oggi molto rara tra i tenori, ha rammentato in ogni momento le caratteristiche anche storiche del personaggio, senza mai lasciarsi andare a intemperanze veriste solo per mettere in mostra la potenza della voce, curando sempre con molta attenzione i recitativi e il fraseggio che, uniti a buone capacità attoriale, ne hanno fatto un Alfredo quasi di riferimento.

Trionfo personale per il baritono Simone Piazzola, che ha bissato “Di Provenza il mar, il suol”, e che è stato accolto da una vera e propria ovazione al cambio scena del secondo atto. Un trionfo assolutamente meritato, perché da tempo non si vedeva un Germont così soffertamente partecipe e scenicamente efficace, sia nelle movenze che nella mimica. Dotato di una voce di notevole potenza, dal timbro bronzeo e vellutato insieme, Piazzola ha dato prova di una tecnica superlativa, che gli ha permesso bellissime mezzevoci, suggestivi filati e acuti pieni e coperti. Né basta, perché la sua resa del personaggio ha insistito molto sulla suasività piuttosto che sull'imperio, specie nel duetto con Violetta, e sul dolore paterno più che sul perbenismo borghese in quello con Alfredo, disegnando un Germont davvero umano, vittima forse dei pregiudizi ma buon padre, in controtendenza con scelte che puntano più su una figura calcolatrice e codina, tesa a irretire Violetta ai suoi fini piuttosto che a comprenderne tutto il dramma umano.

Maria Agresta, Violetta, ha sostenuto con estrema disinvoltura l'impervia parte scritta da Verdi, confermando doti vocali che uniscono ad un centro di notevole spessore una buona tenuta dei gravi e della zona acuta, che risultava sempre brillante e coperta, tranne per qualche temporanea incertezza nella cabaletta che chiude il primo atto: interprete sensibile e raffinata, attenta alla cura dei recitativi e dotata di un fraseggio quanto mai espressivo, ha dato il meglio di sé nel secondo e nel terzo atto, dove ha unito a un perfetto controllo vocale una cesellatura delle mezzevoci e dell'agogica che il pubblico ha apprezzato moltissimo, tributandole quasi una standig ovation alla fine dell'opera. Particolare importante, la sua Violetta, nel duetto con Germont ha saputo scenicamente e vocalmente unire alla rassegnazione della donna che sa di dover abbandonare l'amato come un impeto di ribellione, sociale e femminile in toto più che personale, che ha reso la sua interpretazione di “Così alla misera ch'è un dì caduta” dolorosa e accorata, ma anche colma di quel rimprovero che Verdi e Piave avevano voluto infonderle.

Giuliana Cutore

28/3/2017

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.