RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una vedova allegra…

ma non troppo

L'operetta è un genere di spettacolo teatrale caratterizzato da imponenti scene di massa e da danze, in una cornice generalmente molto sfarzosa e di notevole impatto visivo, sostenuta e resa ancor più godibile da una performance orchestrale briosa, spumeggiante e soprattutto leggiadra, come leggiadra deve essere la prova vocale dei cantanti che, solitamente avvezzi all'intensa drammaticità dell'opera lirica, qui debbono innanzitutto alleggerire la linea di canto, evitando gli eccessi stentorei a tutto favore di una vocalità delicata e mai sopra le righe, che privilegi la linea ritmico-melodica e la languida sensualità dei momenti lirici senza sovraccaricarla con esibizioni di acuti forzati e roboanti che, se non si addicono poi tanto nemmeno all'opera lirica, nell'operetta sono quanto mai fastidiosi e fuori luogo.

Tra le operette viennesi, La vedova allegra è universalmente riconosciuta come il capolavoro di Franz Lehár, e ha avuto, sin dal suo esordio nel 1905, innumerevoli, sontuose e splendide messe in scena, e grandissimi cantanti non hanno disdegnato di cimentarsi con le sue melodie. La vicenda di Hanna Glawari e del conte Danilo si svolge in un mondo dorato, scintillante, un mondo apparentemente felice come l'Austria del tempo, ancora ignaro delle due immani tragedie che nel volgere del secolo avrebbero devastato tutta l'Europa. Ma non è un mondo di sogno: o meglio, ci appare oggi come un mondo di sogno, ma va sempre rammentato che per la nobiltà del tempo quello era forse l'unico modo di vivere la vita, tra saloni e feste, tra intrighi d'amore e politici, un mondo insomma dove il problema del pane quotidiano era l'ultimo, almeno per certi privilegiati…

Considerata La vedova allegra nel suo milieu storico, come del resto bisogna fare per ogni spettacolo teatrale, non può non stupire la messinscena allestita dal teatro Bellini di Catania, che ha debuttato il 10 dicembre, con repliche fino al 17: regia, scene e costumi sono stati affidati a Vittorio Sgarbi, che ha optato per la proiezione sullo sfondo delle Terme Berzieri di Salsomaggiore, con inserti Liberty di notevole suggestione e fascinazione, che a suo parere avrebbero dovuto riprodurre e amplificare con ironia la dorata e fastosa mondanità dell'ambiente in cui si muovono Hanna e Danilo. L'idea in sé non sarebbe stata poi male, se queste proiezioni, del resto abbastanza piatte e statiche, non avessero creato una sorta di restringimento visivo del palcoscenico, azzerandone di fatto la profondità e rendendo alquanto difficoltoso il muoversi delle grandi masse tipiche di questo genere di spettacolo. Sì, perché di fatto l'azione si svolgeva solo sulla parte anteriore del palcoscenico, in una immobile unidimensionalità dove anche le scene più imponenti non riuscivano a trovare una degna collocazione. L'unico praticabile, una corta scalinata in orizzontale, sapeva soltanto penalizzare i movimenti del coro, senza donare alcuna profondità e verticalità a una scenografia dove le movenze dei protagonisti (e ci saremmo aspettati molto di più dalla verve di Sgarbi) risultavano alquanto stereotipe e poco curate, col sospetto che tutto fosse affidato alla buona volontà e alla professionalità degli artisti. Né i costumi contribuivano a mitigare questa impressione: troppo nero nella prima parte per i vestiti delle signore, quasi un'epidemia di vedovanza si fosse scatenata a Parigi, e in generale tagli che non valorizzavano per nulla, con strascichi ingombranti, goffrature eccessive e colori un po' pacchiani in seguito, con rasi lucidi di dubbio gusto, accoppiati a improbabili spacchi non esattamente liberty.

Sorge qui spontanea una domanda: perché mai affidare regie a blasonati esperti quando la nostra città conta molti registi, meno blasonati magari ma più esperti e attenti, e in grado di allestire prodotti di fattura più che dignitosa? Non è dato sapere quanto costino i servigi di tali esperti, ma si ritiene comunque che sarebbe il caso di impiegare meglio il poco denaro che il Bellini ha in cassa.

Quanto all'aspetto musicale in senso stretto, bisogna francamente dire che la direzione di Andrea Sanguineti è riuscita a ricreare in parte l'atmosfera leggiadra e spumeggiante tipica dell'operetta a dispetto degli sforzi della regia: applausi convinti sono stati riservati al direttore dal numerosissimo pubblico che affollava il teatro, e la scelta di far seguire al can can delle grisettes quello di Offenbach ha infuso l'unica travolgente ventata di festosità allo spettacolo, grazie anche ai professionali movimenti scenici creati da Giusy Vittorino. Notevole anche la prova del coro del Bellini, istruito da Gea Garatti Ansini, che ha cantato con spirito tutto viennese, con brio e senza sonorità eccessive.

Silvia Dalla Benetta, nel ruolo di Hanna Glawari, ha sfoderato ancora una volta la sua bella ed estesa voce, pur se, da un punto di vista strettamente stilistico, non è riuscita a immedesimarsi più di tanto nel ruolo dell'allegra vedova: quel che le mancava era appunto la leggiadria scanzonata del personaggio, gli acuti erano troppo possenti, da opera lirica e ammiccanti al dramma, uno sfoggio superfluo e sovente eccessivo che appesantiva il tutto senza una reale necessità. Ha trovato il suo momento migliore nella celeberrima Romanza della Vilja, dove è riuscita ad alleggerire la voce e a distenderla in un delicato lirismo, regalando al pubblico un'esecuzione davvero magica.

Fabio Armiliato, Danilo, mostra ancora una notevole tempra tenorile e spiccate doti attoriali che ne hanno fatto un segretario d'ambasciata gradevole e ilare, scanzonato quanto basta e a suo agio anche nei momenti comici; anche a lui purtroppo ha nuociuto l'attestarsi vocalmente sui moduli dell'opera lirica, con acuti talvolta un po' forzati e stentorei che non gli hanno però impedito di cantare con delicato sentimento il languido e struggente Tace il labbro, suggello dell'amore tra Danilo e Hanna, che anche l'orchestra ha reso con estrema soavità.

Manuela Cucuccio, nei panni della briosa e civettuola Valencienne, è stata, insieme a Emanuele D'Aguanno (Camille de Rosillon), l'unica che abbia compreso perfettamente il suo ruolo e la vocalità ad esso necessaria: aggraziata e spiritosa, ottima attrice e disinvolta sul palcoscenico, si rivela ancora una volta una cantante in sicura crescita, e soprattutto dotata di una notevole sensibilità artistica che le consente di adeguare il suo notevole strumento vocale alle istanze della musica e mai viceversa. Notevole anche, come accennavamo sopra, la prova di Emanuele D'Aguanno, tenore dalla voce morbida ed elegante: musicale e raffinato, ha cantato senza mai forzare, smorzando la potenza degli acuti a tutto favore dei legati e dell'espressività, cosa che gli ha permesso di creare quell'atmosfera avvolgente che Come di rose un fiore pretende per essere realmente cantata e non solo eseguita.

Professionale anche la prova di Armando Ariostini nei panni del Barone Zeta, che è riuscito, insieme a Tuccio Musumeci, perfettamente a suo agio e signorile come sempre nel comico ruolo di Njegus, a creare momenti di genuina allegria che hanno strappato calorose risate al pubblico.

Giuliana Cutore

11/12/2017

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.