RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

«Voglio trovare…»

«Si prenda un compositore al culmine della sua vitalità melodica, se ne infiammi l'immaginazione con un intreccio bizzarro e stravagante e lo si incanali poi attraverso la più convenzionale delle strutture librettistiche: questa è la ricetta per uno dei fenomeni più strani e più potenti del mondo dell'opera italiana». Con queste parole Julian Budden, nel suo Le opere di Verdi, sintetizza la nascita del Trovatore (Roma, Teatro Apollo, 19/01/1853).

A infiammare l'immaginazione del quarantenne Verdi (quarantenne all'epoca della prima: trentottenne, come attualmente chi scrive, quando inizia a interessarsi al plot zingaresco, mentre è ancora a Venezia per il Rigoletto, nel 1851) è El trovator (1836) di Antonío García-Gutiérrez, drammaturgo spagnolo seguace del teatro à la Hugo. Interessante è come Verdi sia venuto a conoscenza del soggetto: «Non è mai stata trovata nessuna traduzione italiana del dramma di García Gutiérrez» (ancora Budden), ma, come dichiara Francesco Izzo su Repubblica del 21/09/2022, il teatro spagnolo lo «scopre grazie alla storia d'amore con Giuseppina Strepponi. Lei conosce la lingua. È lei stessa a indirizzarlo verso Gutiérrez e Saavedra». «Spicciati a dare il NOSTRO Trovatore» scrive Giuseppina al compagno (oggi diremmo così) il 3 gennaio 1853. E in quel NOSTRO c'è tanto esplicito non-detto.

Carta, inchiostro e calamaio e giù a scrivere a Cammarano per soggetto e libretto. Ma Cammarano, dopo aver fornito a Verdi i versi di Alzira, La battaglia di Legnano e Luisa Miller, tentenna. Per un mese non risponde. Poi comincia a scrivere qualche verso a rilento, tra l'imbarazzo di una trama con diversi punti poco credibili (Leonora che si getta fra le braccia del Conte di Luna perché è buio? Sembra la burla di Don Giovanni ai danni di Donna Elvira, che abbraccia Leporello sotto la finestra; Azucena che scambia i bimbi e brucia suo figlio anziché il figlio del Conte? Va bene esser fuori di sé, ma qui è esser fuori di melone…) e la sua ideologia conservatorista che schematizzava i libretti in rigorose forme chiuse, laddove Verdi, dopo l'esperimento del Rigoletto, chiedeva fluidità al testo ed elasticità di forme: «Se nelle opere non vi fossero né Cavatine, né Duetti, né Terzetti, né Cori, né Finali ecc. ecc., e che l'opera intera non fosse (starei per dire) un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto» (lettera a Cammarano del 04/04/1851). Parole che sembrerebbero rispecchiare l'ideologia di un Berlioz, di un Wagner. E infatti Il trovatore inizia senza il classico coro introduttivo. Inizia sì con un personaggio secondario, come da schema, ma inizia senza Sinfonia, addirittura senza Preludio. Senonché nel luglio del 1852, Verdi apprende dalla stampa che Cammarano è morto. Il libretto, incompleto, viene preso in consegna da Emanuele Bardare, che rimaneggia in parte il lascito del suo predecessore secondo le intenzioni del compositore e lo porta a termine.

Con sede a Parma e a Fidenza, il festival Verdi, come sempre ad ottobre, vede quest'anno il focus sui drammi verdiani tratti da lavori spagnoli. Ecco quindi in cartellone Trovatore Forza del destino e Simon Boccanegra, su drammi di Gutiérrez e Saavedra. Logico quindi che anche altre piazze italiane venissero influenzate da questa scelta. Ed ecco il Maggio Musicale Fiorentino proporre sul suo palco Il trovatore quale titolo d'apertura di stagione, di cui si riferisce relativamente allo spettacolo di domenica 2 ottobre 2022.

Ha di che essere considerata una prova di alto livello, almeno a livello artistico, quella di questo Trovatore, tanto per la direzione e concertazione, affidata a Zubin Mehta, quanto per il cast. Se in alcuni passaggi la direzione di Mehta rallenta i tempi e smorza l'incalzante tensione di cui la partitura verdiana si struttura, è anche vero che dedica un'attenzione particolare al suono orchestrale, e conferisce al versante strumentale un valore sinfonico, quasi che dirigesse una sinfonia con voci, ma con le voci in primo piano, prevaricando su esse in modo sporadico e in certi casi quasi opportuno, laddove cioè i concertati vocali assumono pari valore con l'orchestra (qui quella della Casa, sempre molto valida, all'altezza della situazione).

E veniamo alle voci. Fabio Sartori si conferma a pieno agio in un Manrico dalla vocalità chiara, aperta, “spianata”, non squillante ma che calibra con intelligenza dalle delicatezze di Ah! Sì, ben mio, ai più appassionati accenti di Ha quest'infame l'amor venduto, fino alla fin troppo famosa e guerresca pira, il cui do viene centrato e sostenuto a dovere, anzi, ritardato leggermente, forse per creare un effetto sorpresa (ben riuscito) o per prendere fiato (aiutato in questo dalla soppressa ripetizione della cabaletta). Amartuvshin Enkhbat è un superbo Conte di Luna, voce bella, potente, rotonda, fiato da vendere, dizione corretta, tutto al servizio di un'interpretazione che valorizza il lato egoistico e spietato, più che amante (anche Di Luna, dopo tutto, a modo suo, ama Leonora, ma in modo possessivo: «Leonora è mia!») del suo personaggio. Stupendamente eseguita Il balen del suo sorriso, coronata da prolungati applausi a scena aperta. Da parte sua, María José Siri si cala in una Leonora convincente, suadente in Tacea la notte placida e quasi cullante in D'amor sull'ali rosee; prevalgono nel suo strumento, dal timbro brunito, una certa facilità per le note gravi, sebbene conservi omogeneità di emissione anche nel registro acuto. Timbro brunito che invece non si riscontra nell'Azucena di Ekaterina Semenchuk, dalla vocalità limpida, benché corposa. D'altro canto, quando inizialmente Il trovatore doveva andare in scena a Venezia, era stata scritturata Marianna Barbieri-Nini, soprano, per Leonora; ma, non essendo ella entusiasta di Tacea la notte placida, Verdi la invita a scegliere il ruolo di Azucena, che oggi attribuiamo a un mezzosoprano/contralto. All'epoca le differenze di registro vocale non erano così nette: bastava inquadrare l'estensione in cui un/una cantante dava il meglio ed era fatta. Quindi, perché non concepire un'Azucena dal timbro più chiaro? Tanto più che la Semenchuk si avvale di un'interpretazione stupenda, magistrale, lavorando sulle singole sillabe e addirittura sulle singole lettere: le i di stride (con la r bella arrotata e sonora), vittima, e soprattutto sinistra sono pronunciate acconciando la bocca a un riso sardonico, che rende perfettamente l'idea di una visione orrifica che si materializza nella sua mente e della vividezza con cui essa si manifesta.

Tutt'altro che comprimario, Riccardo Fassi delinea un Ferrando consapevole del suo ruolo di capo delle guardie, con vocalità che colpisce per profondità e solidità, levigata e particolarmente “narrativa”. Assieme a Enkhbat e a Semenchuk è colui che più di tutti tratta il suo personaggio con movenze appropriate, talora qua e là lasciandosi andare a gesti poco consoni all'autorità di capo delle guardie, ma in ogni caso più partecipe di tutti gli altri, vincolati ad una staticità talvolta imbarazzante (si noti come il più anziano dei personaggi nell'opera, che ha visto già da adulto la madre di Azucena, sembri il più giovane sul palco). Completano il cast la Ines di Caterina Meldolesi (che potrebbe aspirare a ruoli ben più importanti, con un timbro più chiaro della Siri, un volume vocale importante ed espressività interpretativa), il Ruiz di Alfonso Zambuto, il Vecchio zingaro di Davide Piva e il Messo di Joseph Dahdah. Chiudiamo la carrellata con il Coro della Casa, diretto da Lorenzo Fratini, compatto e di grande potenza.

Tutto bene, regia di Cesare Lievi a parte. Il concept di questo nuovo allestimento è quello ormai abusato del doppio in scena, che incarna gli incubi e il passato dei personaggi. Anzi, dei doppi: due vecchie streghe dalla fluente capigliatura grigia e scarmigliata, che, o vengono legate e percosse dagli aguzzini/boia (perché poi abbiano maschere a forma di cane, tipo Anubi, non si sa), o rapiscono il bimbo nascondendolo sotto la gonna. I bambini sono due, i due fratelli, che duellano per gioco con spade di legno colorate ma che a un certo punto impersonano, al momento dello sposalizio di Manrico e Leonora, una coppia di sposi, uno col cilindro, l'altro col velo bianco. Non ci facciamo mancare una diafana figura che porge il veleno a Leonora e va coricarsi, per poi frugare dentro un passeggino vintage, di quelle con le ruote coi raggi e la cappottina. Tanto movimento sullo sfondo, dietro un velo che dovrebbe separare visivamente la realtà dal ricordo (suore comprese, con larghe ali alla vincenziana e più cerate antipioggia nere che tonache), poco movimento per i personaggi, come detto, che sovente cantano da fermi, senza sapere esattamente cosa fare, soprattutto in scene d'insieme in cui i momenti lirici creano come dei freeze in cui non possono far altro che aspettare la fine del pezzo, anche perché non hanno da armeggiare con niente: la scena, di Luigi Perego, che firma anche i (mal)costumi (Di Luna, Ferrando e i soldati in trench grigio e chepì alla francese, imbraccianti fucili, Manrico in cappotto e foulard da artista, che sfida Di Luna al coltello, manco fosse Alfio di Cavalleria), Leonora ammantellata, Azucena fulvicrinita che si porta appresso un materassino lacero tipo coperta di Linus…) è desolantemente vuota. Tre pareti di assi di legno grigie (alcune di esse mobili, per l'entrata e l'uscita dei cantanti) contornano uno spazio in cui, nella prima metà campeggia solo una panca, nella seconda, letti d'ospedale o brande militari arrugginite, con materassi macchiati e sdruciti, distesi e arrotolati. All'interrogatorio di Azucena si aggiunge una scrivania e una poltrona, un paio di sedie, ma poco cambia. E nessun accenno a rogo, fuoco o pira. Zero. È pur vero che, come scrive Mattioli nel suo saggio introduttivo, la Spagna del Trovatore non è fondamentale per l'azione; e sia, non ambientiamolo in Spagna. Ma una coerenza di costumi e luoghi penso ci vorrebbe, a meno di trasferire tutta l'opera su un piano onirico e psicanalitico (anche qui, roba fritta e rifritta) che superflueta la coerenza spazio-temporale. Il tutto immerso in una penombra continua (luci di Luigi Saccomandi), a sottolineare che, come scrive Lievi nella nota di regia (c'è bisogno di una nota di regia per spiegarla: capiamoci), «Il trovatore è un'opera notturna […], buia e disperata». Da qui la desolazione di luci e scene. Solo un amante della musica può apprezzare l'apparire della linea di canto sullo sfondo, con note e pentagramma, quando Manrico canta Deserto sulla terra. Ad altri potrebbero apparire come geroglifici per chi non è egittologo. È forse l'unico guizzo di illuminotecnica che salvo.

O che altro. Voglio trovare un senso a questa vita, cantava Vasco Rossi. Io vorrei trovarlo alla regia di questo Trovatore

Christian Speranza

6/10/2022

Le foto del servizio sono di Michele Monasta.