RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Anatomia della tirannide

Les vêpres siciliennes aprono la stagione del Costanzi

Nella sua idiosincrasia verso gli spettacoli in costume, il teatro d'opera contemporaneo elude sovente le prospettive storiche ben definite per orientarsi verso una temporalità sfumata, dagli appigli universali. Una cifra applicata dalla regista Valentina Carrasco all'allestimento de Les vêpres siciliennes, titolo inaugurale della nuova stagione del Costanzi. Dopo la messa in scena del 1997, la prima in lingua originale nel nostro paese, il teatro romano torna alla versione francese, preferibile rispetto alla declinazione italiana in quanto su queste scansioni e su questa prosodia, il libretto è di Scribe e Duveyrier, Verdi modella la partitura. La cava di pietra della quale parlano le note di regia è in realtà una sorta di paesaggio metafisico, a volte illuminato da una luce fredda e tagliente, più spesso avvolto in un'aura grigia che ricorda la pittura di Sironi. Enigmatiche torri si muovono sul palcoscenico, inquietanti scenari di indicibili orrori. Con gesto sapiente, lo scenografo Richard Peduzzi riesce a veicolare un senso di oppressione, a simboleggiare il giogo dittatoriale che offusca la terra siciliana. Prosciugata dei suoi colori mediterranei, dei suoi elementi esotici e pittoreschi, la vicenda si espande con convincente passo narrativo e scavo psicologico.

Anche il balletto, di solito luogo di coreutiche esibizioni che poco hanno a che fare con la trama, trova un persuasivo innesto sulla drammaturgia del grand opéra. La coreografia, pensata dalla stessa Carrasco insieme a Massimiliano Volpini, sviluppa il tema dello stupro come elemento portante della guerra. La donna, indifesa e violata, è vittima di una strategia militaresca che mira all'annientamento fisico e psichico del nemico. Il pensiero va agli stupri etnici delle guerre jugoslave, o ancora meglio alle dittature sudamericane, per restare in un ambito geografico più vicino alla regista. A momenti di forte impatto emotivo, come quando l'ombra colossale di Procida evoca il fantasma del fratello di Hélène, se ne alternano altri più generici, nell'ambito di uno spettacolo comunque sempre coerente.

Il pubblico più tradizionalista non ha apprezzato l'originale impaginazione del balletto, mentre consensi unanimi ha ottenuto la parte musicale. Daniele Gatti ha superato in maniera brillante i dubbi e le perplessità espresse in sede di conferenza stampa, riguardo questa partitura confezionata da Verdi non senza fatica, piegando le proprie esigenze di concisione alla logica magniloquente del grand opéra. La sua è una concertazione meditata, pensata fin nei più minuti dettagli, generata proprio dall'approccio non immediato al testo. Sin dalla sinfonia introduttiva, il direttore milanese esalta la rinnovata maniera verdiana, esposta all'influsso dei grandi modelli mitteleuropei. Nel corso della narrazione conduce per mano ogni singolo personaggio, scavando nel dettaglio delle diverse psicologie. Un lavoro estremamente accurato, ben supportato dal cast. Roberto Frontali è un Montfort di ampia statura, in grado di coniugare l'inattaccabile maschera dell'immagine pubblica con i rovelli della sfera privata. Verdi, come farà con maggiore consapevolezza nel Don Carlos, innesta i tormenti domestici in un ampio contesto storico-politico. Il tiranno è anche un padre, con tutte le sue fragilità. Nonostante i trascorsi cimenti, la voce di Frontali appare intatta, flessibile ai ripiegamenti emotivi e solida nelle proterve esternazioni. Del pari ottimo il Procida di Michele Pertusi, votato alla causa costi quel che costi; una chiave di lettura che complica il carattere del personaggio, esponendolo a sottili ambiguità. Straordinario come di consueto John Osborn nel ruolo di Henri, per il timbro accattivante, per la voce duttile nel fraseggio, solida e squillante nell'acuto. Il tenore statunitense è a proprio agio sia nell'espressione amorosa, quanto negli accenti lacerati dell'uomo diviso fra l'amore filiale e il dovere patriottico. Un gradino al di sotto Roberta Mantegna, una Hélène nel complesso ben cantata ma non esente da sbavature, in particolare nel quarto atto. Curate tutte le parti di contorno. Una menzione merita infine il coro, preparato in maniera egregia da Roberto Gabbiani.

Riccardo Cenci

16/12/2019

La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.