RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La scatola cranica di Otello

«Il luogo scenico dove faccio svolgere lo spettacolo è il nero e magmatico notturno dell'inconscio – potremmo trovarci nella tempestosa scatola cranica di Otello». Parola di regista. Rendiamo grazie al regista. Ma ci arriviamo dopo. Prima i dati oggettivi. Che sono quelli dell'evento, la quarta e ultima recita di Otello, domenica 19 ottobre 2025, al Teatro Regio di Parma. Di quale Otello si parli, è superfluo specificarlo, trattandosi del XXV Festival Verdi. Vale la pena chiarire però che si tratta dell'edizione originale che andò in scena alla Scala di Milano il 5 febbraio 1887, senza i ritocchi che l'autore apportò in vista dell'esecuzione parigina del 1894 (e senza i ballabili, ovviamente).

Il côté musicale risolve brillantemente uno spettacolo registicamente debole. A cominciare dalla direzione di Roberto Abbado, alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini. La scelta direttoriale si attesta su un taglio particolarmente energico laddove all'orchestra è dato di spingere sul pedale emozionale del tutti: davvero d'impatto risulta infatti l'introduzione, letteralmente “tempestosa”, del primo atto, o lo scoppio che traduce in suono lo sconvolgimento psicologico di Otello subito prima di Dio, mi potevi scagliar. Del pari, si rileva una concertazione intelligente, lucida e più che mai analitica, che enuclea particolari di orchestrazione poco frequentati, preziosi per apprezzare quei procedimenti compositivi che mirano ad effettistiche rese foniche: il coro Dio, signor della bufera, ad esempio, non compare ex abrupto, ma è preparato da tre cariche di trombe, cornette e tromboni, qui sbalzate in primo piano con bella evidenza. Ma presto si perde il conto di tali sottigliezze; simmetricamente si citerà qui il curatissimo fraseggio dei contrabbassi soli che introducono Otello nell'atto IV – e quello staccato e pianissimo delle viole nel registro grave, come ben contrasta col tonfo soffocato della grancassa, subito dopo! – e il bel suono “wagneriano”, se non altro per somiglianza di tema e orchestrazione, ottenuto da fagotto e corno inglese sul tremolo degli archi, poco innanzi, un suono spazializzato, largo, molto ben reso; si segnalano poi seducenti nuance pucciniane nel duetto del I atto e una tensione drammatica viva e pulsante nel duetto Jago-Otello al III. Grandiosità e cura nei pieni, insomma, ma anche cura del dettaglio nella scrittura più cameristica, con un'eterea soavità degli archi sotto Desdemona impegnata tra canzone del salce e Ave Maria. Scelte agogiche piuttosto convenzionali tranquillizzano sull'andamento generale. Splendido poi il rapporto con le voci, merito di un'orchestra mai lasciata a se stessa ma raffrenata – e insieme valorizzata, come detto – sì da dar loro il massimo risalto. Validissimo in tal senso il concertato di fine III atto, diretto talmente bene che, complici anche i sopratitoli, è stato possibile seguire le trame del complotto tra Jago e Roderigo, appena rilevate sull'insieme ma nel contempo a tale insieme fuse.

Se tutto ciò è possibile, è merito di un'orchestra ben oliata, compatta nelle sezioni e ben rispondente ai comandi. Prima di addentrarci nei solisti, è bene lodare, per la loro efficacissima resa di volume e di amalgama, anche i due Cori del Regio di Parma, quello adulto, in stato di grazia (se ne aveva già avuta prova al Requiem), preparato dal maestro Martino Faggiani, e quello di Voci Bianche, quasi tutto femminile, diretto da Massimo Fiocchi Malaspina, accompagnato dal complesso di quattro chitarre e quattro mandolini in scena.

E si venga ai solisti, dunque. Un cast ben assortito, equilibrato, con voci scelte bene per i ruoli. A ricoprire il rôle titre è Fabio Sartori, dotato di voce generosa, calda e robusta, facilità di acuti, potenti e squillanti, un bel registro centrale, solido e granuloso, anche se gravi meno riusciti. Una volta scaldato lo strumento, non ancora del tutto in temperatura nei primi due interventi, l'Esultate e Abbasso le spade!, il primo duetto con Desdemona gli permette di sfoggiare screziature variegate, anche nel campo dei piano e dei pianissimo; stessa cosa in Dio, mi potevi scagliar. Bel trasporto anche a fine atto II e un bel Niun mi tema, conclusivo. Tali elogi sono da raddoppiare considerando che, dopo la prima recita, Sartori, indisposto, ha dovuto cedere il testimone per le successive due a Yusif Eyvazov e Brian Jadge, tornando in scena appena ristabilito per la quarta, qui in oggetto.

Desdemona è una bravissima Mariangela Sicilia, che stupisce per timbro morbido e voce pastosa e ricca di armonici, che controlla con indiscussa bravura – notevole l'escursione di dinamiche esibite in «non può asciugar le amare / stille del mio dolor». Ma il capolavoro del capolavoro, per cesello della sillaba, per scavo della parola, per fraseggio e resa espressiva, arriva al IV atto, un trascolorare di timbri angelici nell'Ave Maria, una sofferenza nobile e avvertita nel Salce.

Motore di tutta la vicenda è lo Jago di Ariunbaatar Ganbaatar, salito alla ribalta come una delle voci baritonali più significative della scena lirica odierna. Anche qui, come nella Giovanna d'Arco presentata sempre qui al Regio di Parma nel gennaio di questo stesso anno, dimostra di possedere uno strumento di ampio volume, rotondo, scuro, che gli permette di affrontare il ruolo con belle intenzioni, fraseggiando con stile e adattando la vocalità alla camaleontica personalità del personaggio, dal mellifluo al rabbioso, dall'insinuante al demoniaco, sebbene una certa legnosità di fondo gli permetta di essere più efficace nelle scene più istintive e un po' meno in quelle ove prevalgono il calcolo e il raziocinio. Banco di prova è ovviamente il nichilistico Credo, che risoIve con slancio ed enfasi cruda (e per quanto detto sopra, Era la notte viene fatta corretta, ma non così pregnante), badando a proiettare i non facili acuti con potenza ma con controllo. Con un po' troppo controllo, cosa che sottrae al suo Jago, qui come in altre parti dell'opera, quel tanto di belluino, di luciferino, che fa parte del personaggio.

A un anno di distanza, dopo l'ottima prova quale Riccardo al Verdi di Busseto, ritrovo Davide Tuscano in veste di Cassio, voce giovane, balda, sicura e ben proiettata, piuttosto a suo agio in scena: felice per lui che abbia quest'anno potuto calcare un palcoscenico più importante accanto a blasonati nomi della lirica, dei quali, continuando così, farà presto pare, se già non lo è.

Molto valido il comprimariato, che si avvale del Roderigo di Francesco Pittari, del Lodovico di Francesco Leone, del Montano di Alessio Verna, dell'Emilia di Natalia Gavrilan e dell'Araldo di Cesare Lana.

Ma se vocalmente nel complesso sugli scudi, stilisticamente pesa sul cast una certa quota di impersonalità. In altre parole, parrebbe rimanere sullo sfondo il trasporto attoriale e l'aderenza ai personaggi. «Il fazzoletto!» di Otello non trasuda folle gelosia, ad esempio, anche se «Giura e ti danna!» sì, con accenti d'ira tremenda e ben impersonata. Questo per Otello, che infonde anche pochissima naturalità ad «A terra e piangi!», con una Desdemona che anziché essere strattonata e quasi gettata a terra, ci pensa un istante e poi acconsente a piegarsi: e se apparentemente ciò può sembrare il segnale di una Desdemona forte, volitiva, che accentua il suo carattere non di sottomissione ma di donna indomita – in fondo, a leggere l'originale di Shakespeare, lascia volontariamente la casa di suo padre Brabanzio per andare a convivere con un generale della Serenissima, un eroe valoroso quanto si vuole, ma pur sempre un servo del potere di Venezia: è una donna quindi che sceglie –, qui è proprio il momento sbagliato per metterlo in scena, perché è dove la maschia violenza di Otello prende il sopravvento: e se nulla hanno potuto le armate musulmane… Ma ripeto, è caratteristica comune a tutto il cast, questa relativa rigidità di espressione, un atteggiamento poco spontaneo, poco naturale, condivisibile in un repertorio concertistico, più che operistico. Non che sia del tutto assente il trasporto, il coinvolgimento attoriale, e soprattutto intenzionale, dei solisti. Ma che l'atteggiamento generale faccia immedesimare nell'azione, questo no. E in parte ciò risiede nell'allestimento che opta per una semplificazione piuttosto marcata delle scene e che già di per sé estrania lo spettatore da un'esperienza immersiva, e che toglie, più che dare, allo spettacolo.

A sipario aperto campeggiano le parole MORTE e NULLA, riferimento al Credo di Jago, che, dilavate dalla pioggia, si sciolgono, proprio come la parola DOLORE a inizio atto III. Due pannelli luminosi rettangolari in alto lampeggiano a imitazione della tempesta, e vanno a tempo di musica, come il motivo geometrico sullo sfondo, una sorta di neon a segmenti bianchi, che si illumina a riprodurre fulmini e saette. Sono insomma tocchi di colore che richiamano il libretto, ma non lo sviluppano. E perché non aggiungere un po' di astronomia, con Saturno e un altro pianeta roccioso che trascorrono sullo sfondo, in mezzo al pulviscolo di stelle lontane, quando nel duetto si parla di Pleiadi e Venere? Ad accomunare I e III atto sono i lunghi tavoli grigi, spostati su ruote e mossi a mano da inservienti di palcoscenico, in pratica gli unici arredi, assieme a qualche sedia, su un palcoscenico per il resto vuoto, nudo e nero. E se prestiamo fede a ciò che Federico Tiezzi, regista, afferma che questo luogo-non-luogo potrebbe essere come si diceva l'interno della scatola cranica di Otello, allora le teche con gli animali esotici impagliati – un'aquila, due pantere, coccodrilli – dovrebbero ricondurre alle memorie dell'Otello più pedestremente africano – Shakespeare parla della Mauritania –, salvo che qui la ricostruzione è tutto fuorché letterale, a partire da Otello che più bianco non si può; o si dovrebbe forse pensare che quelli sono i suoi «trofei trionfali», dato che compaiono in scena quando canta proprio queste parole (allora sarebbe un cacciatore di ritorno da un safari? Ma per favore …)? Il II atto è tutto giocato su ampi tendaggi rossi che calano a coprire un terzo alla volta il palcoscenico, su cui vengono proiettate altre parole chiave; due sedie per il duetto fra Jago e Otello ed ecco tutto. Il IV azzarda un'ambientazione più comprensibile, una camera da letto moderna, ridotta al talamo e a una finestra – sono le luci di Gianni Pollini a renderla straniante, con un apprezzato gioco d'ombre.

Le scene di Margherita Palli delineano così spazi indefiniti, nei quali i personaggi si muovono ovviamente senza punti di riferimento, e allo spettatore non sono date ulteriori chiavi di lettura per capire se la trasposizione è reale, metafisica, o a metà … anche l'epoca resta sospesa: agli spallacci di metallo di Cassio, residuo di un'armatura per il resto assente, alla lunga veste nera con decorazione dorata di Otello e agli abiti di lamè con paillettes di Desdemona, alternati a una bell'abito bianco e azzurro, a dettagli vagamente pseudo-storici dei comprimari – ai costumi di Giovanna Buzzi, insomma, fanno da contraltare ad esempio i lampadari a goccia, rigorosamente elettrici, del III atto. Un sincretismo temporale davvero poco comprensibile.

Insomma. Una regia può anche essere moderna, o meglio, attualizzante, ma deve avere una sua coerenza interna ed essere a sua volta coerente col libretto, specie se questo indica azioni che i personaggi devono compiere o ancor più atteggiamenti che devono avere. Se alla richiesta di un bacio da parte di Otello non segue nessun bacio, se alla frase di Jago «Non v'alzate ancor!» Otello è già in piedi perché non si è mai inginocchiato, se Otello, come da libretto, non si avventa contro Desdemona ma accenna appena a un gesto violento, senza neppure toccarla, tale che la battuta di Lodovico «La mente mia non osa / pensar ch'io vidi il vero» perde di senso, se soprattutto Otello, suprema beffa, orgogliosamente proferisce «Ho un'arma ancor!» ma non ha nessuna, e per uccidersi si percuote alla tempia e la tempia si macchia di sangue, è chiaro che lo scollamento tra quanto si vede e quanto si sente distanzia lo spettatore più di quanto lo avvicini. E non è cercare il pelo nell'uovo, perché tali particolari si sommano a tutte le altre incongruenze fin qui elencate (i pianeti, le teche con le fiere…) e che rendono artificioso e non intellegibile lo spettacolo. E che costringono giocoforza a un'artificiosità di atteggiamenti i cantanti, come già detto, e il coro, tutto vestito uguale, tutto uniforme in grigio, come gli abitanti di Utopia, o tutto in bianco, per le voci – giustamente… – bianche, con una rosa rossa in mano, e tutti pressati a mo' di esecuzione oratoriale, cose entrambe che tolgono spontaneità e riconducono, sì, a quelle regie vecchio stile dove il coro era quasi l'entità teatrale greca di una persona divisa in molti corpi, che doveva muoversi come un sol uomo in pose stereotipate.

Al termine dello spettacolo, applausi per tutti, sentiti e convinti, al netto dei frettolosi che hanno abbandonato la sala appena calato il sipario. E applausi, più che contestazioni, anche per la scritta FREE GAZA su uno dei pannelli luminosi di cui sopra (l'altro ha riprodotto la bandiera palestinese); al di là di tutte le considerazioni sulla pertinenza o meno di queste ingerenze di politica/attualità a teatro, rispondenti principalmente a voler dare un segnale, peraltro condivisibile, di solidarietà, resta il fatto che l'unica serata nella quale sarebbe stato veramente appropriato, quella del Requiem, è stata quella priva di scritte o bandiere...

Christian Speranza

24/10/2025

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.