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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Macbeth

inaugura la stagione 2018-2019 della Fenice di Venezia

La stagione lirica 2018-2019 del Teatro La Fenice è stata inaugurata con il melodramma Macbeth di Giuseppe Verdi, in un nuovo allestimento con la regia di Damiano Michieletto. Quando si parla del regista veneziano, l'attesa segna molta curiosità per vedere cosa realizzerà e come trasporterà la drammaturgia, poiché la cifra indicativa di Michieletto è da anni così contrassegnata. Questo non vuol dire che una regia moderna sia un brutto spettacolo, anzi, e il regista ne ha offerto un buon ventaglio ma spesso non tutto collima sia con l'autore sia con il testo su cui si basa l'opera.

Il Macbeth veneziano era interamente focalizzato sulla perdita della figlia da parte dei coniugi Macbeth. Elemento appena accennato in Shakespeare, varie fonti di studio prendono pure le distanze poiché aspetto non completamente risolto, Verdi e Piave lo escludono completamente. Tuttavia, come spunto e linea di partenza l'originalità c'è ed è plausibile lo sviluppo dei due protagonisti, il padre più introverso si racchiude in un isolato tormento che solo la ieratica moglie malata, in preda a psicofarmaci, riesce in parte a scuotere per il diabolico progetto. La lettura di Michieletto non è affatto teatrale ma solo psicoanalitica, osando uno sviluppo lento, spesso noioso, e monotematico. L'epoca che potremmo definire anche atemporale è moderna, Macbeth diventa una sorta di alto borghese che suo malgrado sale la scala del potere, ma è l'ossessione del lutto che infrange l'ambizione della Lady: in scena ci sono sempre bambini, ora quelli di Macduff, poi quello di Banco, anche le apparizioni sono bambini, che girano su tricicli. Tutto questo non è nuovo, e le affinità ad altri spettacoli e film celebri sono evidenti. Il delirio del protagonista porta a una serie di omicidi che sono realizzati con avvolgimenti in grandi teli di nylon e il sangue è rappresentato da una vernice bianca. La mano solitamente felice di Paolo Fantin questa volta non si è vista, la scena è vuota con pochi oggetti (soprattutto giocattoli) ai lati una sequenza infinita di luci al neon, su tutto ingombrano e infastidiscono per il rumore i grandi teli che avvolgono i personaggi e il coro. Se da un lato ci sono scene di valida teatralità, in particolare, il moltiplicarsi delle altalene che identificano il muoversi della foresta di Birnam, dall'altro si scende nel più banale gozzoviglio del III atto che non riesce a superare una linea di narrazione avvincente. Le streghe sono abbigliate in un rosa pallido che parafrasa il look delle soubrette televisive anni '60. La creatività di Carla Teti è meglio fruita negli abbigliamenti femminile della corte borghese, gli uomini sono banalmente in giacca e cravatta.

Lo spettacolo offre sicuramente suggerimento di pensiero non comune ma inficiato da una ripetitività troppo ostinata, che nell'insieme penalizza la forza drammatica teatrale, rilevante sia in Shakespeare sia in Verdi, rasentando una noiosa rappresentazione, anche se è doveroso notare che la recitazione dei singoli era molto curata e dettagliata.

Sul podio dell'Orchestra della Fenice il maestro Myung-Whun Chung, al debutto nel titolo. Egli pertinentemente realizza una lettura truce e tetra, con una buona gamma di colori e nitidezza sonora. In molti casi la cura del dettaglio ha però compromesso la tenuta generale che ha accusato molte lentezze penalizzando la narrazione, tuttavia nel complesso una buona prova. L'orchestra era in buona forma e ha saputo adattarsi alle direttive del podio con malleabile professionalità, altrettanto si deve affermare del coro, il quale istruito da Claudio Marino Moretti, tocca i vertici nella grande scena delle streghe al III atto e in “Patria oppressa”.

I due protagonisti, Luca Salsi e Vittoria Yeo, erano gli stessi che eseguirono l'opera a Firenze e Ravenna nella scorsa estate, ma a Venezia con esiti diversi. Salsi interpreta il ruolo con grande coscienza teatrale e un ricercato fraseggio, attraverso una voce duttile ma non così precisa nei colori e talvolta ci sono dei piccoli sbandamenti d'intonazione, anche se nel complesso s'impone il personaggio sia vocale sia scenico. Vittoria Yeo ha più volte oltrepassato il limite dei suoi mezzi vocali interpretando Lady Macbeth, il soprano coreano è un lirico che cause di forza maggiore la portano a esibirsi in ruoli di drammatico d'agilità. Il canto è sempre controllato e rilevante è anche il fraseggio, ma per natura alla Yeo manca l'incisività necessaria nelle agilità, e la zona acuta è fondamentalmente limitata. Invece, dal punto di vista scenico è di una straordinarietà espressiva.

Stefano Secco è un onesto Macduff, con qualche durezza e senza particolari espressione. Simon Lim, Banco, è un cantante dotato di voce molto interessante e bel timbro, ma il canto è greve e senza espressione. Sfasato e impreciso il Malcom di Marcello Nardis, corretti il Medico di Armando Gabba e la Dama di Lady Macbeth di Elisabetta Martorana. Completavano la locandina i professionali Giampaolo Baldin (sicario), Nicola Nalesso (araldo) e nel complesso funzionali i Piccoli Cantori Veneziani (tre apparizioni).

Piccola nota a margine ma non irrilevante, sulla locandina è riportato che si eseguiva la seconda versione dell'opera (Parigi 1865), stranamente non sono stati eseguiti i ballabili ed è stata aggiunta l'aria “Mal per me che m'affidai” della prima versione del 1847. Non è certo chi abbia optato per tale scelta, probabilmente direttore o regista, però la scelta è poco plausibile poiché omettere la musica del balletto è un grave arbitrio e un ingiustificato non rispetto nei confronti dell'autore.

Al termine successo entusiastico per tutta la compagnia, ovazioni per Chung e nessuna contestazione all'allestimento, com'era avvenuto in occasione della prima recita.

Lukas Franceschini

19/12/2018

Le foto del servizio sono di Michele Crosera.