Il corpo di Violetta 
Distribuita fra la tradizionale sede delle Terme di Caracalla e i ruderi della Basilica di Massenzio, la nuova stagione estiva dell'Opera di Roma ha assunto il profilo d'un autentico festival: al punto che il teatro si è addossato il compito delle cerimonie di casa piuttosto che della dirigenza artistica, affidandone la programmazione a un regista ormai benvoluto pure nella Città eterna come Damiano Michieletto. Ne è scaturito un cartellone – questo per Roma è l'anno del Giubileo – sagacemente in bilico tra diavolo e acqua santa (Don Giovanni e l'Haendel della Resurrezione), cultura “alta” e cultura pop (Traviata e West Side Story), titoli fuori repertorio e opere popolarissime ma affidate a regie radicalmente innovative: un po' sprovincializzando l'ambiente capitolino, un po' strizzando l'occhio al marketing delle nuove mode. Sotto il primo aspetto si apprezza l'arrivo d'importanti registi internazionali che non avevano mai lavorato a Roma e, in alcuni casi, neppure in Italia: La traviata che ha visto l'esordio italiano d'un gran talento concettuale e visionario come Sláva Daubnerová, supportata da una direzione e una protagonista entrambe davvero notevoli, ha rappresentato forse il tassello più riuscito di questo percorso. A leggerne il Konzept sunteggiato sul programma di sala, la regia della Daubnerová non sembrerebbe discostarsi dalle tante Traviate femministe, antipatriarcali e propense a declinare il termine “traviata” sotto l'aspetto di prostituta seriale – anziché di mantenuta d'alto bordo – che si sono viste negli ultimi anni: ma il suo retroterra di performer e attrice-danzatrice, prima che di regista, stempera le ideologie e dona una plasticità abbacinante alla partitura visiva da lei impaginata. Al centro c'è il corpo: oggetto di desiderio, prigione, luogo drammaturgico. Un corpo che è innanzi tutto quello corroso dalla malattia, e tuttavia ancora bellissimo, della protagonista (non è semplice cantare da fuoriclasse e, al contempo, recitare esibendo i glutei, ma Corinne Winters sa farlo), diventando però anche totalizzante elemento scenico.
Lo scenografo Alexandre Corazzola, infatti, riempie il palco lungo e stretto di Caracalla – le cui rovine, speculari al disfacimento di Violetta, restano sullo sfondo, avvolte da una vaneggiante cortina di fumo – con l'altorilievo di un nudo femminile a mezzobusto privato della testa: rinvio alle sculture di Camille Claudel (donna che pagherà la “diversità” dalla morale del suo tempo non con la tisi, ma l'internamento in manicomio) e, se si vuole, anche a ossessioni erotiche più nevroticamente contemporanee, come il feticismo del seno e la mastectomia che ne sarà il crudele contrappasso descritti da Philip Roth nell' Animale morente. Quella stessa scultura si squarcerà poi nell'ultimo atto, accogliendo al suo interno la stanza da ospedale – Annina in tenuta da suora, Grenvil in camice da primario – dove una traviata ormai quasi in decomposizione trascina i resti del suo corpo devastato: magistrale colpo di teatro, che è pure micidiale pugno nello stomaco.
Lettini ospedalieri e flebo, d'altronde, transitavano già nel primo atto insieme alle bottiglie del brindisi: La traviata della Daubnerová è anche un collage di deliri premorte, dove il pubblico segue la vicenda “in soggettiva” con gli occhi di Violetta. Sotto questo aspetto, pure i molti passaggi coreografati (che qui vanno oltre le sempiterne zingarelle e i tradizionali mattadori) non rappresentano quegli stucchevoli innesti coreutici propri delle regie bisognose di riempitivi, ma suonano lividi e allucinati; anche se l'impatto visivo più onirico e agghiacciante viene raggiunto quando la protagonista sigla definitivamente il suo olocausto, ossia durante il duetto con Germont: mentre Violetta accetta di annullarsi uscendo per sempre dalla vita di Alfredo, proprio lì accanto parte l'asta con cui si dà il via alla vendita dei beni di casa Valéry, accoppiando così la spogliazione materiale a quella morale. E il fatto che banditore e acquirenti siano i suoi vecchi compagni di demi-monde rende ancor più da incubo la scena.
Cantante-attrice compenetratissima, nonché formidabile tecnica (per concentrarsi su simili desiderata attoriali è necessario avere alle spalle una sicurezza canora ferrea), Corinne Winters sfoggia i tre requisiti richiesti da Verdi per Traviata: «talento grande, anima, sentimento di scena». Invece, nonostante i virtuosismi richiesti nel primo atto, il compositore non indicava fra le necessità imprescindibili il canto di agilità. Dunque, o per Verdi esso contava meno di quanto la critica vociologica oggi pretenderebbe, oppure – più semplicemente – a quel tempo quasi tutti i soprani sapevano dominarlo ed era pleonastico farne cenno. In ogni caso il problema non si pone: pucciniana e janacekiana di prima grandezza, la Winters non avrà abbellimenti e fiorettature nella prima fila del proprio armamentario, ma pure su questo fronte appare tutt'altro che sprovveduta. Il mare di gorgheggi del Sempre libera viene affrontato senza difficoltà né artifizi, sebbene la più autentica sensibilità vocale della cantante americana sia da ricercare in altri squarci: certi “staccati” tachicardici nel duetto con Germont, l'implosione/esplosione di Amami, Alfredo, le progressività di Ah, perché venni, incauta!
Gli altri figurano meno bene: Luca Micheletti, però, fa dimenticare una certa tetragonicità del fraseggiatore (un Germont rigido non è necessariamente un Germont monolitico) grazie al timbro caldo e compatto, mentre l'emissione aperta e “di spinta” porta Piotr Buszewski a plasmare un Alfredo talvolta antipatico e volgare. E non a caso il solo momento in cui Buszewski sembra convincere appieno è quello dove Alfredo volgare e antipatico lo diventa sul serio, ossia la scena della borsa. Tutti comunque vengono ottimamente sostenuti dal podio: Francesco Lanzillotta è un direttore eclettico, ma il melodramma italiano dell'Ottocento sembrerebbe il repertorio con cui ha più empatia, a cominciare dalla cultura per la valorizzazione delle voci. Si ammira soprattutto la capacità di mantenere tempi sempre spediti, senza tuttavia rinunciare a una rimarchevole flessibilità agogico-dinamica (Un dì, quando le veneri assume un retrogusto inconsueto, rispetto alla organettistica piattezza di tradizione); e il recupero della cabaletta del baritono dà sul serio l'idea, con Lanzillotta, di accrescere qualcosa in termini di drammaturgia musicale, anziché apparire un inutile pedaggio filologico.
Paolo Patrizi
29/7/2025
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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